il venerdì, 11 febbraio 2022
Il profeta Pasolini
L’uomo che vide il nostro presente
di Alfonso Berardinelli
Anche se la sua opera letteraria è costellata di incompiutezze e di fallimenti, Pasolini resta il nostro scrittore più tipico e rappresentativo di metà Novecento. Forse perfino un grande scrittore, se non si fosse rivelato troppo spesso al di sotto delle sue ambizioni. Come narratore non aveva sufficiente pazienza e la sua tematica era molto limitata. Ma come regista, nei suoi primi film, Accattone e Mamma Roma, fu più poeta che come poeta. In lui l’ideazione superava la realizzazione. In tutto quello che ha scritto non mancano le pagine geniali; eppure è sempre l’insieme che non convince del tutto. Nessuno dei suoi libri può essere considerato il suo capolavoro, né un’opera pienamente degna di entrare in un ideale canone di libri novecenteschi.
Era per così dire un poeta nato, diventato presto un poeta ideologico, sia troppo programmatico che troppo improvvisato. Soprattutto dopo la sua famosa performance oratoria, Le ceneri di Gramsci, del 1957, i suoi versi sono appunti per libri poetici da scrivere e mai scritti. Il binomio con cui decise di autodefinirsi, «passione e ideologia», è non a caso il titolo di un libro di critica. Era soprattutto un critico e un ideologo di se stesso, personaggio-poeta vittima e giudice della società. Raramente sbagliava i suoi bersagli polemici. Al primo posto c’era naturalmente il bieco e persecutorio perbenismo piccoloborghese “clerico-fascista”. E un poeta omosessuale come lui, populista che si voleva comunista, non poteva che essere una vittima privilegiata in un’Italia che in tempi di guerra fredda Usa-Urss era dominata da una Democrazia cristiana sempre pronta ad allearsi con liberali di destra e neofascisti.
Pasolini capiva e amava poche cose: soprattutto l’Italia fisica e storica, i giovani sottoproletari e i puri poeti, categorie umane socialmente eslege. Tale considerava anche se stesso e non mancava di mostrarlo in pubblico. Nei suoi pamphlet testamentari Scritti corsari e Lettere luterane lo dimostrò anche contro gli studenti “rivoluzionari” del ‘68 o gli intellettuali e scrittori a lui vicini, fossero marxisti o liberalsocialisti.
Benché poeta-ideologo, Pasolini ha elaborato soltanto negli ultimi e disperati anni della sua vita un sistema di idee rimasto memorabile. Qualcosa imparò senza dubbio dai filosofi della Scuola di Francoforte (per quel poco che ne sapeva) e soprattutto dal bestseller Onedimensional man di Marcuse. Parlò dell’avvento di un «nuovo fascismo» fondato non sul controllo statale ma su uno «sviluppo senza progresso», una modernizzazione tecnico-culturale che cancella e «omologa» ceti e classi producendo una «mutazione antropologica» senza precedenti, al cui centro c’era, per lui, il fantasma di un uomo medio universale. Aveva capito che questo era il futuro: cioè il nostro attuale presente sociotecnico tenuto insieme da forti dosi di consumi culturali spazzatura.
Come Majakovskij, come García Lorca, le cui morti hanno segnato simbolicamente un’epoca, anche la morte di Pasolini, ucciso da un giovane sottoproletario o forse da una spedizione mafiosa, non poteva che fondare il suo mito. I miti esistono, parlano a lungo, e non sempre è il caso di smontarli.
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