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 2022  febbraio 11 Venerdì calendario

Lettere dall’ultimo castello di Rilke

Lettere dall’ultimo Castello di Rilke
di Davide Brullo
Nel 1919 Rainer Maria Rilke si congeda per sempre dalla figlia Ruth. La ragazza doveva compiere diciott’anni, la primavera era esageratamente calda, Monaco in fiamme: il 7 aprile era stata proclamata la Bayerische Räterepublik, presto sedata nel sangue. Anche la casa di Rilke è ostaggio della polizia: il poeta, debilitato dalla contemplazione, osserva, legge Goethe, traduce Mallarmé, ha appena consegnato le sue versioni dalle poesie di Michelangelo. Ruth, negli anni che restano, tenterà di far visita al padre: nel 1922 si unisce a Carl Sieber; la prima figlia, Christine, nasce il 2 novembre del ‘23. Rilke non parteciperà al matrimonio, non vedrà mai la nipote. «Ruth ebbe un momento la cara idea di farmi una rapida visita mentre ero a Ragaz; non mi fu facile, puoi immaginarlo, dirle di no», scrive Rilke a Clara, la moglie, il 17 novembre del 1925, erano separati da anni. «Per Ruth vorrei essere davvero sereno e interamente me stesso: il mio sforzo tende a questo», aggiunge. «Sì, io taccio, taccio da lungo tempo con tutti... Non ho parole per esprimere il peso invincibile che mi opprime», continua. Eppure, a quell’epoca, Rilke era già se stesso, aveva risolto il compito contratto con la poesia; gli restava poco più di un anno di vita.
 Dietro la leggenda del “recluso dell’arte” c’è una sprezzante spietatezza: la necessità di uccidere tutto, di recidere ogni legame; per creare, qualcosa deve morire. Dal 1919, con delicata perentorietà, Rilke si separa dal mondo: quando un ammiratore, Werner Reinhart, gli dona il castello di Muzot, in Svizzera, nel Canton Vallese, solido, isolato, rude, il poeta intravede la sua cella. Da allora, relega le amicizie in densi rapporti epistolari, trame su uno specchio, infine, un micidiale – e spesso indimenticabile – labirinto di morgane, miraggi, astrologie verbali. È come se Rilke scrivesse sempre sott’acqua, da un altro tempo, come se avesse le branchie al posto dei polmoni e un riverbero d’ali sulle scapole. «Se io osservo la mia coscienza, vedo solo una legge, che comanda inesorabile: richiudermi in me stesso e terminare in un solo tratto questo compito, che mi fu dettato nel centro del mio cuore. Io obbedisco», scrive il poeta a una misteriosa amie. Soltanto a Baladine Klossowska, l’ultima amata – già moglie di Erich Klossowki, madre di Pierre Klossowski e di Balthus – è concesso accedere al castello: insieme, nell’estate del ’21, lo sistemano perché Rilke possa abitarlo in solare solitudine.
Proprio lì, a Muzot, tra il 2 e il 23 febbraio del 1922, accade il miracolo, uno dei momenti cardinali della storia dell’arte, lo zenit: mutilato dall’illuminazione, Rilke, febbricitante, completa le Elegie duinesi, a cui lavorava, senza esito, da dieci anni, e compila I sonetti a Orfeo, che prefigurano la sua ascesi («Anticipa ogni addio, quasi già fosse alle tue spalle.../ Sii sempre morto in Euridice, e innalzati/ fino al Rapporto puro, con più forza cantando»). Di quei giorni, aurorali, irripetibili, abbiamo testimonianza nelle lettere scritte da Muzot, di cui l’editore De Piante, con il titolo Noi siamo le api dell’invisibile (pp. 122, euro 16), pubblica una selezione, curata e commentata da Franco Rella, pensatore radicale, tra i massimi studiosi di Rilke in Italia.
«M’è stato concesso di resistere fino al compimento. Oltre tutto. Miracolo. Grazia. – Tutto in pochissimi giorni. In un uragano... Al cibo non era da pensare», scrive il poeta, l’11 febbraio, dopo aver chiuso le Elegie, a Lou Salomé. Insieme a lei, molti anni prima, nel 1899, aveva «scoperto» la Russia, «per me risolutiva», aveva incontrato Lev Tolstoj, Leonid Pasternak, il pittore, e il figlio, Boris, ancora bambino, che sarebbe stato suo seguace e suo pari. Aveva 23 anni, allora, Rilke; dal 1919 non vedeva Lou, non l’avrebbe mai più vista: che valore possiede la morte, il mortale, per chi abita l’infinito, per chi è compiuto? «Ora io mi riconosco. Era come una mutilazione del mio cuore, che le Elegie non esistessero. Ora sono. Sono», continua – un’ira blu irradia da queste parole. E poi, il tributo al castello: «Sono uscito e ho carezzato il piccolo Muzot – che me l’ha custodito, che me l’ha, finalmente, concesso – come un grande vecchio fido animale». A Muzot, il corpo di Rilke si raffina, il viso specifica le ossa, scandite, come quelle dello sciacallo di Kafka che latra, «vogliamo purezza, soltanto purezza!». «Mai ho sopportato un simile uragano di cuore e di spirito. Ancora ne tremo», scrive a Baladine, con toni equivalenti a quelli usati con Lou: d’altronde, Rilke non invia lettere, consolida un cenacolo.
Già, ma a che pro la protervia della dedizione, l’istanza dell’isolamento, questa implacabile ferocia? Insomma: a cosa serve la poesia? «La poesia non guarisce il male, non guarisce il dolore, non salva dalla morte, ma fa sì che queste cose, tutte queste cose, dispieghino la loro verità più intima e divengano nostre. Redente e reali» (Franco Rella). Amare tutto, in uno sposalizio, fino allo spasmo: questo è il senso dei Sonetti a Orfeo – un amuleto, “monumento funebre alla memoria di Wera Ouckama Knoop”, ballerina, morta diciannovenne, nel ’21 – il precipizio nelle Elegie. Così Rilke riassume il tratto salvifico e terribile della poesia: «Sei tu libero? Sei disposto a dedicarmi tutto? Ad adagiarti con me in un giaciglio, come s’adagiò san Giuliano l’ospitaliere col lebbroso, in quell’estremo abbraccio?».
Non gli restò, lentamente, che morire. I sonetti a Orfeo e le Elegie sono pubblicati da Insel nel ’23; Paul Valéry lo omaggia a Muzot. Il poeta centellina il talento, i ricoveri sono frequenti, gli è diagnosticata una forma dolorosa di leucemia. «E io, che non ho mai voluto vederlo in faccia, imparo ad adattarmi al dolore incommensurabile anonimo», scrive a Rudolf Kassner, il 15 dicembre del 1926. Gli ultimi versi – riprodotti da Rella nel libro – sono abissali: «Sono ancora io, io che brucio/ Ormai qui inconoscibile?». Marina Cvetaeva, con cui aveva inaugurato, qualche mese prima, un epistolario di atroce bellezza, lo reclama, «Rainer, ti sento immancabilmente dietro la mia spalla destra». Sono le 10 di sera del 31 dicembre, Rilke è morto due giorni prima. Si sa, le uniche lettere autentiche sono quelle inviate ai morti.
 
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