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 2022  febbraio 12 Sabato calendario

Orsi & tori

«Qui si parrà la sua nobilitate». Chiedo scusa a Dante se ho cambiato in corsivo tua con sua. Semplicemente perché, anche senza la prima parte della terzina (O muse, o alto ingegno, or m’aiutate; o mente che scrivesti ciò ch’io vidi….) l’endecasillabo più citato del Poeta va dedicato al presidente Mario Draghi, per il quale tuttavia si potrebbe più correttamente tradurre così: Qui, d’ora in poi, vedremo la conferma della sua nobilitate?
Il compito è sicuramente più materiale ma anche più impegnativo di quello del Poeta, che si accingeva a scrivere la Divina commedia, perché la poesia è propria di Dante, mentre la nobilitate di Draghi dipende anche da molti fattori che lui non può determinare: il tempo (poco più di un anno); i compagni di viaggio, assai meno cooperativi di Virgilio, Beatrice e San Bernardo, che accompagnano il
Poeta in Paradiso, tenuto anche conto che non per sua colpa il viaggio di fine legislatura di Draghi, se non è da inferno è sicuramente da purgatorio; infine il contesto internazionale: un vero inferno.
Ce la farà Draghi e con lui l’Italia a uscire almeno dall’inferno che si profila all’orizzonte?
Il Pnrr è in bilico, perché non è umanamente possibile riformare la burocrazia italiana in un anno e il ministro dell’economia Daniele Franco insieme ai capi di gabinetto sta studiando la Semplificazione ter; occorre eliminare l’abitudine inveterata a complicare le cose; sconfiggere la permanente tentazione all’imbroglio (vedi Superbonus 110%), facilissimo nella selva intricata delle leggi e dei regolamenti che soffocano il paese, il che passa inderogabilmente anche dalla radicale riforma della magistratura; rimediare da soli all’esplosione dei costi energetici (e non solo) con un’inflazione che perfino la Bce, dove è scritto sulla pietra il motto di Draghi «tutto quello che serve», comincia a temere e dà segnali di rialzo dei tassi per poi ritrattare (ma intanto lo spread italiano ha superato 160). E ciò pur trascurando momentaneamente i venti di guerra che soffiano e che prevedono sanzioni alla Russia, già gravemente deleterie per l’Italia quando le decise Barack Obama, sempre per lo stesso motivo di inglobare l’Ucraina nella Nato. Se non è inferno questo…
Ma questo dell’Ucraina come quello dell’energia è un inferno comune anche agli altri paesi europei; quindi, potrebbe valere l’adagio «mal comune mezzo gaudio». Ma non è così. Fermandosi all’Europa, l’Italia ha un peccato mortale in più che le pesa sul capo come un macigno: il 155% del debito rispetto al 70% della Germania, per andare ai due estremi. A Berlino non c’è più Angela Merkel e Draghi non è più a Francoforte. I frugali non sono solo nei paesi più piccoli della Ue, sono presentissimi nel governo tedesco, che per di più avendo tre componenti partitiche diverse, dai verdi ai liberali ai social democratici, emana quasi quotidianamente messaggi pubblici sul rispetto del fiscal compact che addirittura prevede il pareggio di bilancio.
Non c’è da illudersi che permanga stabile e a lungo la linea tenuta dal ministro delle finanze tedesche, il liberale Christian Lindner, durante la recente visita a Roma al ministro dell’economia Daniele Franco. In questa circostanza è stato sostanzialmente morbido, spiegando che la riforma del fiscal compact va fatta, ma che oggi non esiste una maggioranza per farla. «L’Europa ha bisogno di un equilibrio intelligente tra limitazioni del debito pubblico da un lato e liberalizzazione degli investimenti per la trasformazione dall’altro», è stato il comunicato ufficiale. Ma a casa sua Lindner dichiara di lavorare per «tornare alla normalità del freno al debito nel 2023 e questo significa che il rapporto debito/pil tedesco (al 70,25% del pil a fine 2021) dovrà scendere nei prossimi anni per rafforzare lo spazio fiscale per reagire nel caso di crisi future». Il consenso di cui gode il ministro tedesco è sceso al 43% dal 50% e quindi in patria Lindner per recuperare deve ripetere quanto ha promesso in campagna elettorale e cioè che dal 2023 verrà attuato il freno del debito, che è un obbligo costituzionale.
È di questa realtà che l’Italia deve prendere coscienza e quindi avviare una manovra che sia sintonica con quella tedesca, pena vedere lo spread schizzare in alto. Certo, se l’orizzonte di Draghi fosse non solo di un anno si potrebbe essere più tranquilli. Ma proprio perché il tempo è poco e i problemi tanti e di dimensione enorme, sarebbe bene che il presidente del consiglio mostrasse la sua nobilitate con un progetto specifico e vincolante per i governi della futura nuova legislatura.
Il titolo è facile anche per l’uomo che con grande coraggio, per uscire dalla crisi che infuriava, nel 2012 disse a Londra da presidente Bce: «Tutto quello che serve». Vinse in consiglio Bce con il solo voto contrario del presidente della Bundesbank, Jens Weidmann ma perché allora la crisi era di crescita, vicina a zero da molti anni, senza quasi inflazione, e ottenendo il consenso di tutti gli altri stati. Oggi lo scenario è completamente diverso: inflazione in forte crescita, nonostante le moine delle banche centrali secondo cui è destinata in parte a rientrare. Se cresce l’inflazione, l’onere del 155% di debito pubblico italiano diventerà insopportabile. Ci si può indebitare quando il denaro costa poco, ma quando il costo è destinato a salire non c’è che da ridurre il debito. Quindi il titolo è semplice, almeno per questo giornale che ne parla da anni, al punto da averlo anche registrato come marchio: «Tagliadebito». E non c’è operazione per tagliare il debito se non si tagliano i costi e non si vende una parte del patrimonio.
Non voglio annoiare i miei tre lettori ma le formule sono varie, la più importante è mettere a frutto il patrimonio immobiliare che lo stato, nella folle logica del federalismo, ha passato agli enti locali, gravando gli stessi degli oneri di mantenimento. Sono centinaia di miliardi e la prima banca del Paese, Intesa Sanpaolo, si è dichiarata più volte disponibile con il suo ceo Carlo Messina, a costituire fondi locali e piazzare le quote fra i risparmiatori. Quel patrimonio è un tesoro che con Intesa Sanpaolo può rimanere italiano, visto l’enorme liquidità sui conti bancari, ma anche consentire un taglio serio che oltre a ridurre il costo del servizio del debito possa permettere di presentarsi al mercato e ai prossimi incontri dell’Unione per la riforma del fiscal compact con il fatto concreto e non solo promesse.
Il consigliere economico di Draghi (anche se apparirebbe pleonastico, per un personaggio della sua competenza) è Francesco Giavazzi, che insieme ad Alberto Alesina prima della sua morte, ha scritto in continuazione sulla necessità di tagliare il debito, tagliando la spesa: ma la contingenza Covid e l’esplosione dei costi energetici e delle materie prime richiede addirittura un’espansione della spesa per sostenere aziende e famiglie. Converrà quindi anche Giavazzi, che da Palazzo Chigi non ha più scritto, che il taglio del debito, per fare in modo addirittura che non cresca ulteriormente, sia attuato con la vendita di patrimonio.
Il sistema di misurazione del debito sia per il fiscal compact o comunque per i mercati è un rapporto fra debito e pil, non un dato assoluto ma percentuale. E proprio per questo Draghi, in privato, ricorda che c’è anche la via di aumentare il denominatore in modo che la percentuale ora al 155% scenda. Ciò può essere anche favorito dall’inflazione, ma dal circuito perverso non si scappa: l’inflazione fa aumentare il costo del debito. Occorre quindi che si attui proprio un taglio netto non soltanto a giudizio di questo giornale ma anche di numerosi economisti qualificati, come il prof. Paolo Savona per citarne uno ed esperti di debito, ben conosciuti da Draghi, come l’ex-ragioniere generale dello stato, Andrea Monorchio. Non ci sono solo gli immobili ma molti altri strumenti collaterali, che tuttavia vanno usati. Draghi non deve indugiare, così passerà alla storia non soltanto come colui che disse «Tutto quello che serve», per far uscire migliaia di miliardi dalla Bce, ma diventerà anche il campione del Tagliadebito: basta che, con il potere che ha oggi, faccia approvare una legge specifica. Non sarà l’unica eredità che lascerà, da presidente del consiglio, ma certamente potrà essere, almeno per l’Italia, di identico valore di quella con cui ha salvato la Ue in quel fine luglio 2012.
Per la verità, c’è anche dell’altro che può fare sfruttando i due principali asset del paese e cioè la capacità del paese di esportare e il grande risparmio che hanno saputo accumulare gli italiani. I due fattori sono fondamentali per la manovra che a Draghi probabilmente piace di più e cioè la crescita per far aumentare il peso del denominatore.
Il surplus della bilancia commerciale nel corso del 2021 ha stabilito nuovi record (supererà i 50 miliardi), confermando la forza e la capacità delle aziende esportatrici italiane. Per queste aziende la crescita dell’esportazione è un problema relativo o inesistente perché recuperano i maggiori costi con i maggiori ricavi, tenuto conto che, per esempio, in Usa l’inflazione supera di oltre 2 punti quella italiana e della Ue.
Ciò che non è legittimo né utile, anzi dannoso, è che il salto dello spread faccia salire il costo del denaro per le aziende, vista la stretta connessione con i tassi che le banche applicano, specialmente se la Bce ridurrà la possibilità di finanziarsi per le banche a tassi a zero.
Il punto ancora più strutturale è la valorizzazione, invece che la penalizzazione, del risparmio. Unica dignità che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non ha incluso del suo bellissimo discorso alle camere, mentre dignità deve essere anche la tutela e l’impiego in Italia del risparmio degli italiani, che invece per il 75% va all’estero, cioè a finanziare le economie di altri paesi. Tutela del risparmio è soprattutto fare in modo che esso frutti e si moltiplichi, senza umiliarlo e penalizzarlo con tassazioni inique.
Perché il 75% del risparmio italiano viene investito all’estero? Perché in Italia non esiste un vero mercato dei capitali, cioè una vera borsa con dimensioni adeguate all’economia del paese, che è terzo nella Ue, e che ha quotate al mercato principale poco 415 società mentre ha un grande mercato dei titoli di stato, con straordinaria efficienza, perché è il paese più indebitato fra i fondatori della Ue. E perché non esiste mercato dei capitali? Per due ragioni: 1) perché per anni è esistita in Italia una sola banca d’affari, Mediobanca, totalmente dedicata alle grandi famiglie, mentre la struttura italiana si basa sulle piccole e medie aziende; 2) perché tuttora, anche il mercato per le pmi conta, grazie a una crescita degli ultimi due anni, 175 società, contro le 3 mila che sono passate dall’Aim di Londra. Una capitalizzazione di borsa lontanissima (800 miliardi in tutto, di cui 11 miliardi l’ex Aim) anche solo dai 1800 miliardi sui conti correnti bancari delle banche. Certo, sono stati inventati i Pir (piani individuali di risparmio) poi sono stati modificati, e ora forse possono anche avere un ruolo visto che godono di favore fiscale per i vincoli di investimento in medie società quotate. Ma per recuperare buona parte del 75% del risparmio che i gestori sono costretti a investire all’estero, occorre un grande piano, non un piccolo piano, per far crescere fortemente la Borsa principale e l’ex Aim, ora Euronext growth Milano (anche se il nome ufficiale è senza la o). E cosa ti fa il governo Draghi? Taglia della metà l’agevolazione fiscale che i precedenti governi avevano concesso alle pmi che si quotavano all’ex-Aim. Di tutte le infinite agevolazioni, quella per spingere le aziende pmi a quotarsi era già la più modesta prima, ora è ridicola. Ma qui non si sta invocando il ripristino dell’agevolazione che c’era. Rimarrebbe ridicola. Si sta chiedendo ben altro al presidente Draghi, che della borsa sa tutto, avendone scritto i regolamenti quando è stato per 10 anni direttore generale del tesoro e per aver visto dal di dentro i meccanismi dei grandi mercati come vicepresidente mondiale di Goldman Sachs nei tre anni prima di diventare governatore della Banca d’Italia.
Suvvia Signor Presidente, trovi il tempo per un piano che può essere davvero strutturale per l’economia del paese: il fondamentale Pnrr, che tuttavia per larga parte prevede prestiti, è pari al 10% del risparmio che ora è sui conti correnti. Ma soprattutto è quel 75% di risparmio che viene investito all’estero, necessariamente, che va recuperato agli investimenti in Italia.
Come scrive Dante: «… Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza». È vero che a Dante fa dire questa frase a Ulisse nel viaggio all’Inferno. Ma naturalmente la citazione non comporta che la si collochi, Signor Presidente, all’Inferno, anche se sicuramente guidare un governo come il suo è un po’ come passare per un altro anno d’inferno. No, pensiamo che lei possa essere l’Ulisse che invita i suoi a varcare le colonne d’Ercole. Faccia che si varchino le colonne di Palazzo Mezzanotte per creare un grandissimo mercato delle pmi, per farle diventare grandi aziende. E per far questo, come primo passo, faccia in modo che l’onnipresente Cdp, dove lei ha nominato un uomo di grande qualità come Dario Scannapieco, costituisca un fondo di liquidità per Euronext growth Milano. La mancanza di liquidità è infatti oggi ancora il maggior problema per quello che potrà essere il più grande mercato delle pmi di tutto il mondo, primo step per il mercato principale, in modo che i gestori di denaro italiano abbiamo la materia prima su cui investire. Così ci sarà meno necessità di Tagliadebito, perché l’economia italiana grazie alle pmi può diventare la seconda dopo la Germania. E come sa, i mercati italiani non sono come la selva della burocrazia per altri settori. Basta una bella legge che spinga migliaia di aziende a quotarsi.