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 2022  febbraio 12 Sabato calendario

I CINQUE GIORNI IN CUI HITLER SI FOTTÉ DA SOLO - UN LIBRO RIPERCORRE I FATTI DAL 7 ALL'11 DICEMBRE 1941, QUANDO IL FUHRER E MUSSOLINI DICHIARARONO GUERRA AGLI STATI UNITI - GIANNI RIOTTA: "AVREBBERO POTUTO SALVARE IL TERZO REICH E IL FASCISMO, UMILIANDO LONDRA E ABBANDONANDO WASHINGTON E TOKYO A UN DIFFICILE DUELLO. E INVECE ENTRARONO IN CONFLITTO CON ROOSEVELT. NON PER ECCESSO DI SICUREZZA: HITLER CONFIDÒ DI NON AVERE IDEA DI COME SCONFIGGERE L'AMERICA…" -

La sera dell'11 dicembre 1941, raccontava mio padre Salvatore, gli studenti universitari dei gruppi fascisti Guf sfilarono nella sua città, inneggiando alla dichiarazione di guerra che Benito Mussolini e Adolf Hitler avevano consegnato agli ambasciatori del presidente americano Franklin Delano Roosevelt.

Quattro giorni prima, il 7 dicembre, le forze aeronavali giapponesi avevano attaccato, e colpito con efficacia, la flotta Usa, in rada a Pearl Harbor, Hawaii, aprendo il conflitto con Washington nel Pacifico.

Ma il presidente Roosevelt, che dal 1939 sperava di battersi al fianco della Gran Bretagna contro i nazisti, non riusciva a persuadere il riottoso Congresso, popolato da senatori democratici del Sud, isolazionisti, a votare le ostilità contro Berlino e Roma, riuscendo solo a combattere contro il Giappone imperiale.

È la scelta di Hitler, dissennatamente imitato da Mussolini, a suggellare il destino finale della guerra 1939-1945. Il ricordo di mio padre si completava con la disperazione del suo barbiere, emigrato per anni a Pittsburgh, operaio alle acciaierie, che nel clamore dei fascisti, gli confida dopo aver chiuso, per cautela, la bottega: «L'America forte è!».

Quei giorni che han segnato la storia, 7-11 dicembre 1941, sono al centro di un saggio degli studiosi inglesi Brendan Simms e Charlie Laderman, "Hitler's American Gamble, Pearl Harbor and Germany's march to global war", tradotto da Vittorio Ambrosio per Newton Compton come "I cinque giorni che hanno cambiato la Seconda guerra mondiale. Da Pearl Harbor alla dichiarazione di guerra di Hitler agli Usa: come la guerra diventò mondiale".

In oltre 500 pagine Simms e Laderman documentano un mondo in bilico tra esiti opposti, vicino a una diversa storia, con gli Usa isolati contro il Giappone e Hitler padrone d'Europa, con il vassallo Mussolini.

Nel dicembre 1941 il premier britannico Winston Churchill dispera di convincere Roosevelt ad entrare nel conflitto e teme che i giapponesi attacchino le colonie inglesi e olandesi, ricche di risorse e indifendibili, senza coinvolgere gli Usa.

Il leader sovietico Stalin sa, dalla spia tedesca a Tokyo Richard Sorge, che la cricca dei generali nazionalisti non intende attaccare Mosca, e, di soppiatto, ritira dal fronte orientale 20 divisioni, per farle affluire verso la capitale dove, il 5 dicembre, lancia una controffensiva contro la Wermacht che, per la prima volta dall'invasione, arretra.

Le buone notizie dal fronte russo non rallegrano però Churchill che, nelle memorie del capo di gabinetto, Lord Alanbrooke, viene dipinto come depresso, alticcio, irascibile, convinto che dalle trame segrete fra Hitler, Stalin e i generali dell'imperatore Hirohito possa scaturire un'intesa per distruggere l'impero di Sua Maestà. Simms e Laderman non credono alla vulgata di un Hitler in preda a un cupio dissolvi, pronto a incenerire la Germania in un'Apocalisse finale.

Già nella biografia del Fuhrer del 2019, "Hitler's a global biography", contestatissima dai critici, Simms negava l'idea di un Hitler pazzo e votato all'autodistruzione, ritraendolo come cosciente della debolezza tedesca di fronte al potere americano, ma determinato a ribaltare la bilancia dell'egemonia con il latifondo, la manodopera sovietica e il petrolio del Caucaso.

Il fascino del volume di Simms e Laderman sta nel contraddire la nostra pigrizia mentale, l'idea che la Storia conosciuta sia l'unica possibile, in un determinismo, antico come Hegel, ma falso: in ogni pagina, come a ogni giro di mano a poker, un Fato originale è in agguato.

Hitler apprende del raid a Pearl Harbor da un subalterno, che gli traduce i dispacci dell'agenzia di stampa Reuters, mentre il rivale Churchill lo scopre ascoltando la radio. Nessuno dei due leader sembra sconvolto, troppo immersi nella fatica del presente, per individuare scenari alternativi.

Churchill ha paura che gli Usa tronchino il programma di aiuti Lend-Lease, che mantiene viva l'industria bellica anglosassone; Hitler, che detesta lo stato maggiore Wermacht, considerando gli ufficiali snob e incapaci, è preoccupato per i bollettini negativi sull'attacco dell'Armata Rossa alla periferia di Mosca.

Benito Mussolini avrebbe, nel frattempo, potuto rinsaldare il «Fronte Latino», con la destra francese del generale Petain, costituendo, senza guerra agli Usa e d'intesa con il Caudillo Franco in Spagna, un Mediterraneo bunker anti-flotta inglese.

Hitler, alla fine, dopo i cinque giorni che avrebbero potuto salvare il Terzo Reich e il fascismo, umiliando Londra e abbandonando Washington e Tokyo a un difficile duello, con il Sol Levante padrone di Singapore, Malesia e, presto di India e Australia, dichiara guerra a Roosevelt.

Non per eccesso di sicurezza, lo storico Benjamin Carter Hett, sul New York Times, ricorda che, nel gennaio del 1942, il Fuhrer confida all'ambasciatore giapponese Hiroshi Shima: «Non ho idea di come sconfiggere l'America» e, per provargli la sua stima, lo insignisce dell'Ordine dell'Aquila d'Oro, concesso solo a 15 dignitari.

Shima ricambierà, chiedendogli invano, nel 1945, di non essere evacuato con gli altri diplomatici, restando a combattere a Berlino contro i russi.

Allora la Storia era già quella che conosciamo e mio padre, lavorando con gli americani dello Psychological Warfare Branch, doveva riconoscere la saggezza del barbiere, miglior stratega di Hitler, Mussolini e del premier Hideki Tj: «L'America forte è!».