La Stampa, 12 febbraio 2022
L’ira di Draghi
Alla prima conferenza stampa dopo la sconfitta nella corsa per il Quirinale, Draghi s’è presentato con un tono duro, risoluto, di sfida. Come se appunto il mancato innalzamento al Colle gli avesse lasciato, insieme a un’evidente delusione, anche la conferma dell’inaffidabilità della politica e dei partiti. A loro, il premier si è rivolto ricordando che il 2022 non potrà in nessun modo essere un anno di campagna elettorale, per le amministrative della prossima primavera e le politiche del 2023. E dovrà invece diventare un anno di lavoro serio per onorare gli impegni presi con l’Europa. Bastino tre esempi a tratteggiare la severa impostazione del premier: quando gli è stato chiesto se nel suo futuro possa esserci il ruolo di “federatore” del Centro, i cui gruppi sparsi potrebbero riproporlo come presidente del Consiglio nella prossima legislatura, ha risposto seccamente che un lavoro è in grado di procurarselo da solo. Inoltre non ha esitato, insieme al ministro dell’Economia Franco, a definire il “super bonus” al 110 per cento per le ristrutturazioni edilizie un meccanismo per truffe record, sollevando le ire dei 5 stelle, molto affezionati al provvedimento. E quando gli è stata sollecitata una valutazione sulla riforma della giustizia, approvata ieri all’unanimità in Consiglio dei ministri, ma con molti aspetti dubbi ancora da chiarire, ha detto che se ne occuperà il Parlamento, e il governo non porrà la fiducia per non imporre il proprio punto di vista. Vale a dire che se i partiti saranno in condizioni di sciogliere alcuni dei nodi che la trattativa a livello governativo non è stata in grado di risolvere, bene. Altrimenti avranno dato un’altra prova della propria incapacità.L’amarezza del premier per il modo in cui si è conclusa la vicenda Quirinale era percepibile. Draghi non poteva certo pensare di avere l’elezione in tasca, ma le trattative da lui condotte in prima persona con i leader della maggioranza di unità nazionale devono avergli lasciato un senso di scoraggiamento, per la confusione in cui si sono svolte e per le profonde divisioni che i partiti lasciavano affiorare. Tal che anche quando un accordo cominciava a delinearsi, un momento dopo partivano i siluri nei confronti di coloro che lo avevano siglato. Ed è stato questo a convincere Draghi, dopo cinque giorni di votazioni inutili, a prendere l’iniziativa per arrivare al bis di Mattarella, rinunciando alla propria candidatura. D’altra parte, nella confusa settimana delle Camere in seduta comune, il nome del presidente del Consiglio, o era stato coinvolto invano, o aveva rischiato di diventare una bandiera agitata da fazioni opposte di pezzi di diversi partiti: il contrario esatto dello sforzo di unità, previsto dalla Costituzione, che dovrebbe rappresentare la premessa dell’elezione del Capo dello Stato.E tuttavia, chi s’aspettava che Draghi uscisse triturato da questa esperienza e si acconciasse rassegnato a svolgere in modo dimesso l’ultima parte del suo compito, ieri ha dovuto ricredersi. Il premier è perfettamente consapevole delle difficoltà che lo attendono e non hanno tardato a manifestarsi come conseguenze politiche della guerriglia parlamentare sul Quirinale: l’implosione del centrodestra, con Berlusconi attratto dalle sirene centriste e lo scontro tra Salvini e Meloni che prosegue senza esclusione di colpi. La polverizzazione del Movimento 5 Stelle, con Grillo che tenta ancora di incollarne i cocci. Le immancabili turbolenze del Pd. Ma allo stesso tempo Draghi è convinto che l’importanza degli appuntamenti che attendono l’Italia, a cominciare dalla realizzazione del Pnrr, finirà con l’imporsi per la forza delle cose. L’Italia non può permettersi di perdere la grande occasione che l’attende. Anche una politica cieca, come quella vista all’opera nell’assurda partita del Quirinale, finirà per rendersene conto.