Corriere della Sera, 12 febbraio 2022
Biografia di Beppe Fenoglio
«Una battaglia è una cosa terribile, dopo ti fa dire, come a certe puerpere primipare: mai più, non mai più». Così Beppe Fenoglio commenta il primo scontro a fuoco affrontato dall’alter ego Johnny, partigiano nelle Langhe vicino alla sua Alba negli anni della lotta resistenziale. È un commento intensissimo perché mette a confronto il dolore provato da un combattente con quello di una donna al primo parto, creando un cortocircuito spiazzante che inserisce le guerre e le nascite, la morte e la vita, in un circolo profondo e appunto biologico. Le lotte affrontate da Beppe-Johnny non furono soltanto sue e possono essere portate a esempio di condizioni universali.
Questo è il primo motivo per cui Fenoglio, nel tempo, ha conquistato un posto di primo piano nella letteratura italiana del Novecento, pur essendo vissuto poco più di quarant’anni (1922-1963) e pur avendo pubblicato in vita pochi libri, dalla raccolta di racconti I ventitre giorni della città di Alba (1952) al romanzo Primavera di bellezza (1959), passando per La malora (1954). Eppure erano bastati per farlo considerare uno dei giovani scrittori più promettenti da Italo Calvino, suo sostenitore all’Einaudi, poi anche da Livio Garzanti, che pubblicò subito dopo la morte un altro volume, Un giorno di fuoco, dove si leggeva pure un capolavoro quale Una questione privata. Ma già negli ultimi anni di vita Fenoglio aveva dovuto affrontare vari problemi editoriali, che per esempio lo avevano indotto a rinunciare al grande progetto in cui rientrava la notevolissima sezione ora nota come Il partigiano Johnny, uscito solo nel 1968 e oggetto di grandi elogi ma pure di polemiche fra critici e filologi.
Questa fase, per fortuna, è ormai alle spalle e gli ultimi curatori di opere fenogliane, come Luca Bufano e Gabriele Pedullà, si sono giovati di tutte le ricerche precedenti per proporre nuove e valide edizioni dei racconti e dei romanzi, che in occasione di questo centenario saranno ripubblicati con nuove introduzioni, così come le lettere e altri testi per il teatro. Da una visione d’insieme di queste opere, e anche delle traduzioni dall’inglese (come quella, maestosa, della Ballata del vecchio marinaio di Coleridge), emerge un autore che è stato fedele a una vocazione profonda, una sua «primaria ragione», come diceva, che lo spingeva alla scrittura, convinto che gli uomini di lettere, secondo quanto sosteneva Thomas Carlyle, fossero eroi che coglievano la realtà attraverso una continua rivelazione.
Raccontando da subito, con i vivacissimi e gioiosi Appunti partigiani (del 1946, ma editi nel 1994), la sua esperienza resistenziale, Beppe non si poneva certo il problema della coerenza ideologica, e meno che mai quello di dissacrare i valori in cui credeva fortemente. Le critiche suscitate dai toni eroicomici o addirittura bassamente realistici adottati nei racconti dei Ventitre giorni riguardavano una lettura superficiale dei contenuti, mentre adesso in essi individuiamo resoconti fedeli e non solo agiografici degli eventi, e soprattutto un modo di rappresentarli segnato dalla ricerca forte di un senso. Sono le domande che si pone Max in Un altro muro, quando è convinto che sarà fucilato e viene poi risparmiato, come Dostoevskij, mentre il suo compagno di cella Lancia giace a terra crivellato. La vita deve continuare, però la morte è penetrata per sempre in quel giovane sopravvissuto.
Ma un po’ tutti gli eroi di Fenoglio sono segnati da sentimenti potenti o addirittura devastanti. I partigiani suoi simili e gli uomini delle sue Langhe percepiscono il male di vivere, magari nella forma basilare e arcaica della «malora»: nel romanzo breve del 1954 il protagonista Agostino deve affrontare continue sofferenze per tirare avanti, ma un momento di dolore panico, quasi un Urlo di Munch tradotto in parole, emerge quando vede il corpo di un altro contadino che si è impiccato in un boschetto. E sono indimenticabili i propositi suicidi di un padre nel breve e drammatico Il gorgo, lo sconvolgimento di Superino quando viene a sapere di essere figlio illegittimo, lo sterminio prodotto da Pietro Gallesio con una sparatoria grottesca e tragica in Un giorno di fuoco. Un mondo ancora legato ai rituali contadini e partecipe di fatti straordinari viene rivelato dallo scrittore-eroe, tessera dopo tessera, quasi a comporre un formidabile e impressionante mosaico.
Soprattutto, Fenoglio ci lascia una narrazione che non nasconde alcun aspetto della Resistenza, fatta di assalti e agguati, di fughe a perdifiato, di lotte per sopravvivere contro i nemici e contro una natura che, da amica e protettrice, può diventare ostile. Ogni situazione è portata all’iperbole, specialmente nel Partigiano Johnny, dove più che mai la consapevolezza di dover morire accompagna ogni impresa e lo stile si fa elevatissimo, marcatamente epico. Ma nelle opere di Beppe non c’è spazio soltanto per questi aspetti, o per le feroci delusioni del dopoguerra (nel quasi-noir La paga del sabato, all’inizio addirittura rifiutato dagli editori ma adesso da molti rivalutato), bensì pure per le osservazioni comiche o ironiche, per i momenti di requie, per la dolcezza di un amore adolescenziale. Solo che, nel suo testo attualmente più letto e amato, Una questione privata, persino quell’amore idealizzato che poteva consolare il partigiano Milton si trasforma all’improvviso in un’ossessione. La volontà incontenibile di sapere se la splendida Fulvia si è legata all’amico-nemico Giorgio, caduto prigioniero, spinge Milton a disattendere i suoi impegni andando alla ricerca di un fascista per uno scambio: questa quête incessante consente di attraversare per intero la realtà della guerra, tuttavia non conduce a una scoperta ma invece a un’ultima, disperata fuga e a un crollo finale. Benché possa rimanere un dubbio sull’esito effettivo, il senso è chiaro: l’amore e la guerra, condizioni antropologiche fondamentali, possono travolgere sino alla follia. È compito dei grandi scrittori, come Beppe Fenoglio, saper guardare e rappresentare l’uno e l’altra con assoluta nettezza.