Corriere della Sera, 12 febbraio 2022
Le complicazioni del Metaverso
Lauren ha curato amorevolmente il marito, Taylor, quando, nella loro casa in Florida, lui si è ferito a una mano menando fendenti mentre combatteva in un incontro di boxe nella realtà virtuale. Immerso in un mondo fantastico grazie a un visore digitale, ma cieco per quanto riguarda la realtà materiale, ha tirato un pugno poderoso contro un telaio d’acciaio. Lauren è stata assai meno comprensiva quando, qualche settimana dopo, Taylor ha rotto un vaso di cristallo giocando a tennis, sempre in salotto, nella realtà virtuale: inevitabile è arrivato l’invito a trasferirsi in una palestra reale.
Di storie come questa il Wall Street Journal, come altri giornali americani, ne racconta tantissime: l’eccitazione provocata dall’annuncio – fatto qualche mese fa da Mark Zuckerberg – del prossimo ingresso dell’umanità nell’era del Metaverso, ha spinto milioni di cultori soprattutto di videogiochi a sperimentare le possibilità offerte da visori come gli Oculus di Meta-Facebook. Il loro uso sregolato sta provocando, ad esempio, epidemie di gorilla arm syndrome (dolori articolari causati dal troppo tempo passato a braccia alzate). Ma se può far sorridere la goffaggine di Jake Masters che a Charlotte (North Carolina) si è slogato una clavicola menando fendenti nel mondo reale mentre in quello virtuale combatteva a mani nude contro una tigre nel Colosseo dell’antica Roma, è agghiacciante quanto è accaduto a una donna che in Gran Bretagna, entrata col suo avatar nel gioco virtuale Horizon Worlds appena messo sul mercato da Meta, è stata virtualmente assalita, violentata e insultata con frasi come «ammetti che in realtà ti piace» da quattro avatar maschili. Uno choc per questa donna che non è certo digitalmente sprovveduta, visto che è vicepresidente, con la responsabilità della ricerca sul Metaverso, di una società delle tecnologie virtuali, Kabuni Ventures. Nessuno sa ancora se e come si materializzerà questa sorta di reincarnazione di Internet nella quale la realtà fisica e quella digitale si intrecceranno in modo inestricabile dando vita a una nuova realtà virtuale nella quale ognuno di noi dovrebbe poter esistere quando e dove vuole. Una ubiquità che molti non riescono nemmeno a concepire. Difficile perfino parlarne, e la politica fatica a capire. Così le attività che dovrebbero diventare parti costitutive del Metaverso continuano a svilupparsi senza alcun controllo. Fino ai pastori che, come D.J. Soto in Pennsylvania, costruiscono chiese virtuali, popolate dagli avatar dei fedeli.
Novità che non impressionano i tanti che non credono alla nascita di un mondo parallelo totalmente virtuale nel quale, come sostiene Zuckerberg, giocheremo, lavoreremo, faremo acquisti e coltiveremo le nostre relazioni sociali, attraverso i nostri avatar. Questo scetticismo è più che giustificato: il fondatore di Facebook lancia la sfida del Metaverso per spostare l’attenzione dai gravi danni politici e sociali causati dalle sue reti e perché la redditività delle sue aziende, basata sulla pubblicità, è crollata da quando la Apple ha dato agli utenti dei suoi iPhone la possibilità di bloccare la cessione dei loro dati personali alle imprese digitali: da qui la necessità, per Zuckerberg, di inventare un nuovo modello di business. Che non è detto funzioni.
Per Jaron Lanier, tecnologo e artista che di realtà virtuale se ne intende visto che è stato lui a condurre i primi esperimenti fin dagli anni Ottanta del Novecento, Zuckerberg sta vendendo un’illusione: «Non esiste alcun posto dove collocare tutti i sensori e i display digitali necessari» per un’immersione totale nella realtà digitale. Ma anche lui, che ora lavora per Microsoft, punta al Metaverso, sia pure in versione meno ambiziosa: fatta di realtà aumentata più che virtuale e concentrata sul lavoro, le riunioni aziendali, gli interventi medici e chirurgici.
Anche Scott Galloway, docente della New York University e guru della tecnologia, è convinto che Zuckerberg abbia imboccato un vicolo cieco: per Galloway il visore Oculus non sarà mai popolare come un iPhone o le cuffie AirPods. E se anche il fondatore di Facebook avesse successo, si troverebbe contro tutti gli altri gruppi di big tech: «Se riuscisse davvero a controllare le nostre relazioni sociali e le interazioni con la politica diventerebbe un dio scientifico. E l’idea di un dio di nome Zuckerberg terrorizza tutti». Secondo l’accademico è più probabile che si formino aggregazioni dominate non da società di cui non ci fidiamo più come i social media ma da compagnie asettiche come quelle che gestiscono sistemi di pagamento (tipo PayPal) che, intrecciandosi con imprese del mondo dell’informazione e dei videogiochi, creino delle super app: piattaforme in grado di offrire all’utente una messe sterminata di servizi, anche in realtà aumentata e virtuale.
Anche se non vivremo in un mondo totalmente virtuale, Internet e le reti evolveranno. I social privi di regole hanno fatto disastri. Non studiare per tempo i nuovi mondi virtuali, non introdurre vincoli etici minimi, significa esporsi a patologie sociali – dal bullismo digitale alla difficoltà di trovare la propria identità e costruire rapporti interpersonali equilibrati – molto più insidiose di quelle che abbiamo fin qui conosciuto nell’era del web.