il Giornale, 11 febbraio 2022
Vivian Maier on the street
Alla fine, la Storia ha rimesso a posto le cose. E Vivian Maier, che quando è morta, nel 2009, nessuno sapeva chi fosse, chi era stata e chi sarebbe diventata, oggi lei che lavorò tutta la vita a servizio, come governante e bambinaia è la regina, ante litteram, della street photography. Osservare, mettere a fuoco e fissare su pellicola il frenetico «American way of life» degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta... fotografando bambini, impiegati, operai, persone di buona società, famiglie, coppiette, mendicanti, emarginati, sempre in giro per la città, nel cuore della periferia e ai margini del centro.
Fece tutto da autodidatta, non pubblicò neppure una fotografia in vita, il suo immenso archivio finì in un magazzino preso in affitto, morì anonima come la gente che aveva ritratto, e ora, nel giro di una decina di anni, non solo è una delle fotografe più famose del 900, ma è persino sovraesposta in termini di mostre, saggi, film, documentari, romanzi... Sliding doors: cosa sarebbe successo se nel 2007, mentre lei si spegneva lentamente in una casa di cura a Highland Park, una quarantina di chilometri a nord di Chicago, un immobiliarista di nome John Maloof non avesse comprato a un’asta, per qualche centinaia di dollari, il box in cui Vivian Maier aveva lasciato 200 casse di cartone piene di rullini e negativi per oltre 120mila fotografie? Ci saremmo persi uno degli album di famiglia più belli del sogno americano e dei sonni agitati della metropoli moderna.
Invece, eccola Vivian Maier (1926-2009), ancora una volta. Prima domanda: serviva un’altra mostra dedicata a una artista così sovraesposta? Parola che dal punto di vista fotografico significa che è stata esposta alla luce per un tempo superiore a quello necessario, e da quello giornalistico che è già stata vista troppe volte rispetto a quanto sia opportuno... Risposta: visitata la mostra, sì. Serviva.
Oltre 250 immagini, dieci filmati in formato Super 8, oggetti personali, dieci sezioni, quindici sale, un arco fotografico lungo 45 anni, dai primissimi anni Cinquanta ai Novanta, dalla East alla West Coast, New York-Los Angeles – andata con un biglietto di ritorno di seconda classe, non di più – la grande retrospettiva Vivian Maier inedita curata da Anne Morin e aperta da ieri nelle Sale Chiablese dei Musei Reali di Torino (fino al 26 giugno) è «inedita» non solo perché l’80 cento delle foto esposte non sono mai state viste prima, e neppure stampate (fra cui una serie di immagini di Torino e Genova scattate nel suo viaggio in Italia nel luglio 1959); ma perché offrono una immagine nuova della fotografa newyorchese. Inventariati i luoghi comuni – «una fotografa amatoriale che cercava nella fotografia uno spazio di libertà», «la tata pioniera della street photography», «l’unica tra le invisibili che è riuscita a diventare una icona» la mostra prova a spiegare come una autodidatta timida e senza istruzione, imbevuta da un immaginario visivo fatto di cinema e riviste popolari, e il cui lavoro è passato inosservato per tutto il corso della sua vita, si ritrova nella storia della fotografia a fianco di maestri come Robert Doisneau, Robert Frank o Helen Levitt. Già, come ci è riuscita? Utilizzando sempre e soltanto due linguaggi fondamentali, uno umanista che le derivava dalla cultura francese (la madre era nata nel Champsaur, dove Vivien vivrà da piccola per diversi anni) e uno squisitamente americano che le derivava dalla cultura della strada, sovrapponendo i quali ha fatto raccontare ai suoi soggetti, casuali, il senso generale della vita. Si chiama occhio fotografico.
Incorniciata fra una delle sue Rolleiflex, eccola qui, all’entrata – era la macchina per il bianco e nero – e una Leica, là in fondo, nell’ultima sala – che utilizzò più avanti, per le fotografie a colori – la mostra è una lunghissima sequenza di fotogrammi, sezione dopo sezione: (auto)ritratti, la Strada, i Gesti, l’Infanzia, il b/n, vintage, i filmati, il colore...
Capello corto e sguardo lungo, Vivian Maier viene incontro al visitatore fotografandolo, occhi alti e macchina fotografica ad altezza ombelico: tu le sei di fronte, lei è riflessa in una vetrina, in cento specchi, è un’ombra allungata. Nella sua vita, trascorsa tutta in epoca pre-selfie, si calcola che si scattò almeno 5mila autoritratti: il suo archivio come un enorme Instagram dell’epoca per affermare la propria identità, certificando la nostra. Qui alle pareti ne sono appesi una dozzina. Poi, tutto il resto: vita da strada, volti, emozioni, espressioni, mimiche, sguardi.
Cose notevoli della mostra. I brevi, silenziosi, traballanti Super 8 (come quello girato durante la parata degli astronauti dell’Apollo 11 a Chicago nel 1969), che dimostrano come Vivian Maier a un certo punto inizia a usare la cinepresa per filmare le persone e le pose che poi avrebbe fotografato: è la sua personalissima lunga ricerca nello studio dell’immagine. La serie di scatti del 1959 a Torino e Genova: in una giornata usò tre rullini... e chissà quanti ne usò nei sei mesi in cui tra il ’59 e il ’60 viaggiò intorno al mondo (una delle sue rarissime vacanze, e alla famiglia presso cui era a servizio non disse mai dove era stata...) visitando le Filippine, la Thailandia, India, Yemen, Egitto, Italia e infine la Francia delle sue origini. La serie di scatti dedicata ai giornali (una sua ossessione), forse sognando di vedersi pubblicata, un giorno... Quella dedicata alle posture, i tic, le smorfie dei passanti: chi sbadiglia, chi mangia, chi guarda fissando il vuoto, chi intreccia le mani, chi tiene il cappello, chi apre una borsa, chi recita se stesso nel teatro fatto di asfalto, panchine, autobus e negozi. E la sala dedicata ai bambini, soggetto che lei da governante conosceva molto bene, ritratti in giro per la città: piccoli protagonisti inconsapevoli del grande gioco dell’arte destinati, fino a una frazione di secondo prima dell’incontro con Vivian Maier, a non lasciare segni del loro passaggio. E che ora girano, divertendosi, per tutti i musei del mondo.