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 2022  febbraio 11 Venerdì calendario

Intervista a Miriam Leone e Stefania Auci

Miriam Leone e Stefania Auci si incontrano online un giovedì di gennaio. Leone ha terminato una giornata di riprese sul set di Diabolik 2 e 3; Stefania Auci, insegnante di sostegno in una scuola a rischio di Palermo, si è alzata dalla scrivania dopo aver lavorato al nuovo romanzo. La siciliana di Catania e la siciliana di Trapani si raccontano.
Una conversazione sorprendente sull’essere donne, sul successo, e sul futuro, in rosa, del Paese.
Leone: «Io te lo dico subito: ti amo».
Auci: «Anch’io, non sai quanto. E non ti dico mio figlio: fan sfegatato».
L. «Faccio leggere I Leoni di Sicilia a tutti. Lo consiglio e lo regalo. Io sono siciliana, l’ho sentito sotto pelle».
A. «Cosa vuol dire per te essere siciliana?».
L. «Io sono nata a Catania, ma i miei ricordi d’infanzia sono tutti ad Aci Trezza».
A. «Per me essere siciliana è una questione di energia che cambia a seconda dei paesaggi che incroci.
Penso alla natura delle Madonie, che ritengo sacra. Alla potenza di Pantelleria. Ma anche all’Isola glamour, mondana. Nessun altro territorio nel Mediterraneo è stato capace di realizzare lo stesso sincretismo».
L. «Infatti la Sicilia è un continente, è mille culture: insegna che la diversità è ricchezza».
A. «Però tu sei andata via».
L. «Sì, è vero ed è stato un sacrificio ma a un certo punto ho avuto bisogno di fare un salto in avanti. Ma più mi sono allontanata, più lei è cresciuta dentro di me. Ad Aci Trezza ho comprato una casa, la mia casa».
A. «Che adolescente sei stata?».
L. ( ride) «Compravo il vintage quando era considerato una cosa da poveretti. Nella provincia c’erano le borse di Burberry, le Hogan e poi c’ero io, quella strana. Avevo bisogno di esplorare, di capire chi fossi e per farlo mi sono dovuta perdere in un mare grande. Volevo fare l’attrice e pensavo: come si fa? La svolta è stata Miss Italia».
A. «Io volevo fare la scrittrice e pensavo la stessa cosa. Non ero proprio una bellezza: più larga che alta come diceva mia sorella. Era difficile trovare un posto nel mondo.
Puntavo molto sulla mia testa, sulla mia intelligenza».
L. «Guarda che per me l’aspetto fisico non contava granché ed è stata la mia fortuna perché così ho puntato su altro».
A. «Per me invece contava anche troppo: grassa, goffa, non troppo brillante. Volevo far arrivare il mio cervello. E la scrittura è stata un progressivo accumularsi di mattoncini messi uno sull’altro con tanta testardaggine. La scrittura in fondo è questo: distruggere e ricostruire. E la Sicilia è legata alla mia svolta, al momento in cui ho capito che potevo raccontarla».
L. «L’Isola è un continente nel senso che contiene ma anche genera: è capace di donare».
A. «L’archetipo della sicilianità è quello della madre, della nutrice, a cominciare dai miti. Ma Persefone è dea della primavera e anche degli inferi: è sempre un gioco di luci e ombre. Anche nel rapporto col successo: da un lato l’orgoglio di fare quello che molte nostre madri e nonne non hanno fatto, dall’altro il filo di piombo che ti dice: stai un passo indietro. Quello che oggi dovremmo dirci è che siamo brave abbastanza».
L. «Sai che mia madre è stata la prima donna della mia famiglia a lavorare?
Mia nonna firmava con la X, ha portato il lutto per quarant’anni. Ho avuto modelli femminili che ho dovuto superare ma che sono dentro di me. La vera svolta è la consapevolezza che la tradizione non è una religione ma sono i valori che ti porti dentro. Riguardo al successo, parola che non amo, credo che si è già molto fortunati quando si scopre cosa si vuole fare. Se poi si riesce anche a metterlo in pratica è il massimo: ma ci vogliono impegno e fortuna».
A. «La consapevolezza di se stesse è il primo passo contro la violenza. Il problema di fondo è capire perché il successo delle donne faccia paura. Io credo che abbia a che fare con l’idea che gli uomini hanno di sé: quindi sì lavorare sulle donne, ma anche su di loro».
L. «Quando c’è uno stupro la foto ricorrente è di una donna accovacciata per terra col viso tra le mani. Questo è il massimo del racconto del più grande tabù che esiste: la violenza di genere. Quella foto è l’emblema di un sistema che ti schiaccia. Bisogna lavorare sugli uomini e anche sulle mamme e i padri degli uomini: io ho deciso di sposare mio marito dopo aver conosciuto questa madre e questo papà fantastici che hanno fatto venir fuori il meglio del figlio. L’altro pilastro sono gli insegnanti».
A. «Sfondi una porta aperta».
L. «L’educazione è fondamentale.
Sono figlia di un professore: sono da sempre pagati troppo poco e invece insegnare deve diventare cool. Oggi i ragazzi preparati, che potrebbero diventare ottimi docenti, sono spinti a cercare altro. Le mie professoresse di italiano e latino mi hanno insegnato a non aver paura delle emozioni. È così che ho cominciato a essere un’attrice».
A. «Io sono un’insegnante di sostegno: mi ha molto colpito il ruolo di Chiara, disabile, nel film Corro da te».
L. «Ho passato mesi in carrozzina, anche dentro casa. Ho girato in lungo e in largo il Pigneto, a Roma, maledicendo chi mette i gradini davanti i locali, chi ostruisce gli scivoli. Ho capito cosa vuole dire essere guardati dall’alto in basso e guardare dal basso verso l’alto. Ho incontrato ragazzi stupendi che mi hanno insegnato come vivere con metà del corpo. Con una di loro ci siamo fatte una bellissima bevuta “in carrozza” e mi ha detto: “Mi devi promettere che ci fai fighe”. Non dimenticherò mai l’esperienza di questi mesi: la vita è sempre degna di essere vissuta».
A. «Hai mantenuto la promessa: il personaggio di Chiara è super figo.
Miriam, continua a portare il mare dentro: è il mio augurio».
L. «E il mio è di saper cogliere ancora, e restituire, la bellezza. E pure di essere felice, anche in inverno.
Perché l’inverno ha già le sue gemme sotto pelle».