la Repubblica, 11 febbraio 2022
I gatti degli scrittori
«Il gatto è un domestico infedele» brontolava il grande naturalista Buffon: lo teniamo solo perché cacci gli scomodi topi. Imperdonabile Buffon! Sacher-Masoch adorava essere il topo della gatta- Venere in pelliccia : «Sono un topolino prigioniero di un bel gatto che gioca delicatamente con lui, pronto a straziarlo in pezzi. Il cuore di topo mi scoppia: che vorrà fare di me?». Già nel 1654 il grande filosofo libertino Cyrano de Bergerac si deliziava così: «Mi abbandono tutto a voi; fate di me quel che volete, come fa il gatto col topo». I letterati amano i gatti anche in momenti meno brucianti; molti anzi apprezzano di tenerli in spalla quando sono concentrati nella scrittura. Al felino domestico è anche dedicata una festa, la Giornata nazionale del gatto, che cade il 17 febbraio. E che viene celebrata in maniera inedita, come vedrete, anche sul nuovo Robinson.
Piaceva a Edgar Allan Poe la sorveglianza dall’alto di Cattarina, e la presenza di Williamina a Charles Dickens; Principessa poteva passeggiare tra le carte di Henry James, D’Annunzio non ricordava di esser stato mai senza un gatto, e Muriel Spark si chiedeva come si può umanamente scrivere senza il «gatto dello scrittore» sotto la lampada. «Non si possiede un gatto, è lui che vi possiede», mette in guardia Françoise Giroud, che ha fondato L’Express.
Charles Baudelaire, quando carezzava il dorso elettrico del suo gatto «profondo e freddo», vedeva «in spirito la sua donna»; lei, Jeanne Duval, la bella mulatta dall’antico mestiere, cacciava il gatto e portava in casa i cani, che il poeta detestava. Diceva bene Paradis de Montcrif, nella Storia dei gatti (1727): «È sui tetti che faremmo bene ad andare a cercare l’educazione».
Mark Twain, che di gatti ne ha avuti anche 19, in viaggio li affittava – tre a Dublino nel 1906 – poi lasciava loro di che vivere nove vite. Americanissimi o divinità arcane, li chiamava Zoroastro, Belzebù, Buffalo Bill o Bambino (questo si perse: Twain lo descrisse con ansiosi e minuziosi dettagli, offrendo forti ricompense, così si presentarono molti pretendenti; il gatto tornò da solo). T. S. Eliot, l’ermetico poeta, riteneva che fosse «un’impresa difficile mettere il nome ai gatti»: per il suo scrupolo testuale ce ne volevano almeno tre (e dedicò ai figliocci Il libro dei gatti tuttofare ).
Più letterale, Georges Simenon chiamò Christmas un gatto che lo aveva seguito per strada il giorno di Natale; e infatti poi lo portava a passeggio come un cane. Il più grande amante di gatti di tutti i tempi fu il caustico scrittore Paul Léautaud; ne ebbe trecento, più una capra, centocinquanta cani, una scimmia sottratta a un circo e varie galline salvate dalla pentola; gli interni e il giardino erano allo stato brado. Nel 1944, durante l’Occupazione nazista, stava in coda ore e ore per nutrire i suoi felini (lui casomai digiunava); i vicini gli lanciavano i loro gatti sopra il muro del giardino, certi che sarebbero stati accuditi. Sempre nel ’44, il 4 dicembre, Ernst Jünger trovò stecchita in un campo la bella persiana Hexe (“strega”) del figlio Ernstel: avvelenata? Jünger era nella cerchia degli attentatori a Hitler del luglio del ’44, e così gli avevano spedito Ernstel in un reparto suicida. Ma, è l’unico commento di Jünger, gli restano la nipotina di Hexe, Kissa, il gatto d’angora Jacko, e la principessa siamese Li-Ping. Intanto, sempre iperbolico, Hemingway amava Biancaneve con sei dita – i polidattili ancora si riproducono nella casa di Key-West; a Cuba un piano di Finca Vija era destinato alle cucce di 57 felini.
Era ancora il 1921; un articolo sui gatti di Paul Léautaud colpì Proust, che decise di prendere dei mici in casa; ma la sua cameriera mise il veto: in quella stanza che non poteva mai areare, perché lo scrittore non si alzava mai dal letto! Proust ripiegò su Colette. È Colette la più grande scrittrice di gatti parlanti; Kiki-la-doucette è capricciosa, e una dominatrice; con Toby- chien sparlano dei duezampe.
Alle gatte Colette doveva un po’ di (onesta) dissimulazione, e il fastidio per i suoni brutali; e certo era irresistibile nelle pantomime feline. Ma poi ebbe in casa, a passeggiare tra i suoi fogli di velina celeste, Ladernière, e fu l’ultima (però quando Colette veniva a Cinecittà, i gatti di Roma, per passaparola, accerchiavano in folla il suo polmone prelibatissimo). Nel 1905 in Giappone Natsume Soseki inizia così un romanzo: «Sono un gatto»; Zorba a pelo nero, in Sepúlveda, cova una gabbianella; e, su tutti, Elsa Morante, sempre col suo cibo per gatti nelle passeggiate notturne per Roma, dedica al ron-ron di Minna la siamese una poesia: «Una chitarretta essa ha / se la testina le gratto, o il collo, dolce suona». Minna carezza le illusioni: «Tanto mi bacia, a volte, che d’esserle cara io m’illudo». E per il gatto Alvaro di Menzogna e sortilegio un Canto porta il riposo agli umani («Si ripiega la memoria ombrosa / d’ogni domanda io voglio riposarmi»), sospendendo tutte le distanze: «E t’ero uguale! Uguale!».