La Stampa, 11 febbraio 2022
Intervista ad Anthony Fauci
Corrispondente da Washington
Anthony Fauci, «The Doctor», scorre dal suo ufficio di capo della National Institute of Allergy e Infectious Disease, le notizie e i dati che arrivano dal cuore dell’America sulla pandemia e per la prima volta si lascia andare a un cauto ottimismo. I numeri delle ospedalizzazioni sono in discesa, Omicron colpisce 200 mila persone al giorno contro le 890 mila del 13 gennaio. La curva è «incoraggiante – dice il principale consigliere di Biden sulla sanità – ma bisogna essere pronti a reagire perché non possiamo prevedere le mutazioni del virus».
Dottor Fauci, viste le curve dei contagi, possiamo dire che la pandemia è all’ultimo miglio?
«Stiamo andando nella giusta direzione, ma la strada non è ancora segnata in maniera netta. Sono incoraggiato da quello che vedo e dai dati che riceviamo. Scendono le ospedalizzazioni, i casi calano. Ogni indicatore è buono: il rapporto fra contagi e persone ricoverate è basso, sempre meno pazienti devono ricorrere ai macchinari di ventilazione o alle terapie intensive. Persino la durata dei ricoveri è calata. Se restiamo in questa dimensione e con la presenza di Omicron, direi che la direzione è quella giusta. Tuttavia, non voglio e non posso essere troppo fiducioso».
Perché?
«Ho tratteggiato uno scenario legato alla predominanza di Omicron e alla coda della Delta, ma la direzione del virus è imprevedibile, è possibile che una nuova variante emerga e quindi in definitiva non credo sia appropriato dire che siamo alla fine. Ma ripeto, gli indicatori oggi sono buoni e la direzione è quella giusta».
Negli Stati Uniti e in molti Paesi europei i governi stanno allentando o togliendo del tutto le restrizioni. La voglia di normalità da parte della gente è forte. Crede sia il momento giusto per allentare la presa o avrebbe aspettato ancora un po’?
«È comprensibile che vi sia fra la gente un sentimento di frustrazione e di fatica per questi due lunghi anni. Comprendo le ragioni dei governi chiamati a prendere decisioni complesse. Togliere le restrizioni però deve andare di pari passo con le pratiche che consentono di mitigare la diffusione del virus».
Quali in particolare?
«Diciamo che sarebbe più facile ritornare alla normalità se ci fossero più persone vaccinate. Non scopriamo nulla di inedito, i dati confermano che i vaccini e in particolar modo associati al booster (il richiamo) hanno un impatto decisivo nel limitare il numero di ospedalizzazioni e la mortalità. Chi non è vaccinato rischia molto di più di finire ricoverato rispetto a chi ha le dosi consigliate. Negli Stati Uniti purtroppo il numero di “full vaccinated”, ovvero chi ha fatto due dosi, non è alto come altrove e questo può essere un elemento di preoccupazione. Quindi se vogliamo – come è naturale – il ripristino della normalità perduta, insistere sulle inoculazioni resta la strada maestra. Anche perché dobbiamo renderci conto che è il modo più efficace per indebolire il virus che non verrà certo sradicato. Se il virus diventa meno aggressivo, anche le forme gravi di malattia diminuiscono ed è questa in fondo la condizione che consentirà ai Paesi, dagli Stati Uniti all’Europa, di avere meno restrizioni. Oggi rispetto all’anno scorso abbiamo gli strumenti per incidere, sappiamo cosa serve per indebolire il virus».
La terza dose sarà l’ultima o prevede per il mantenimento di questa condizione di controllo della diffusione del virus che serviranno altri richiami?
«Non lo sappiamo ancora, non abbiamo una risposta. È possibile che basti il booster. Ma solo monitorando la situazione e studiando l’efficace della risposta del sistema immunitario sul lungo periodo, avremo elementi per decidere. È possibile, forse probabile, che le persone anziane e quelle con certe patologie avranno bisogno di altre somministrazioni. Quel che però adesso osservo qui negli Stati Uniti è che la risposta dopo tre dosi di vaccino mRna e due di Johnson&Johnson, è buona anche in questa fascia della popolazione. L’importante però è non escludere nulla».
Uno dei nodi che ha contraddistinto la gestione del Covid in ogni Paese è stata la modalità dei test e dei tamponi. Chi ne faceva tanti, chi solo ai chi aveva sintomi, chi a tutti: le linee guida sono diverse ad ogni latitudine. In dicembre e gennaio l’America è andata in tilt proprio sui test. Cosa potevate fare meglio?
«Quando uno guarda al passato si rende sempre conto che c’era qualcosa che si poteva gestire in modo più efficace. Avremmo dovuto aumentare la disponibilità dei kit domestici per esempio. Ora però la situazione è sotto controllo, sono stati fatti centinaia di milioni di tamponi di ogni tipo, nei prossimi mesi ne avremo altri a disposizione, anche kit fai-da te molto importanti per contenere la diffusione del virus».
Dottor Fauci, da volto della lotta al Covid è diventato negli ultimi mesi un bersaglio delle critiche della base conservatrice alimentate dalla retorica trumpiana. Per lei si è addirittura scomodato lo slogan delle elezioni del 2016 usato contro la Clinton: “Imprigionatela”. È più deluso o preoccupato da questi attacchi?
«Negli Stati Uniti c’è un clima politico di estrema contrapposizione. Io sono sempre stato guidato nelle mie azioni dalla scienza e da quanto questa impatta sulla salute pubblica. Purtroppo, i temi della Sanità sono stati politicizzati da alcune frange del Paese; dico purtroppo perché la scienza non è un tema a cui si può mettere un’etichetta politica. È vero che sono finito sotto il tiro dell’ala radicale della destra, ma non me ne preoccupo. Continuo nel mio lavoro come sempre, che è quello di proteggere gli americani e indirettamente anche il mondo grazie agli studi e alle terapie di cui gli Stati Uniti sono leader». —