Tpi, 10 febbraio 2022
L’agricoltura verticale
L’agricoltura verticale sfamerà il mondo? Ecco da dove arriva il cibo del futuro
Idroponica, acquaponica, aeroponica: anche il tradizionale settore della coltivazione è stato invaso dalle nuove tecnologie. Per produrre 365 giorni all’anno ma senza sprechi
di Andrea Lanzetta
L’agricoltura ha da sempre le sue leggi. È un’attività all’aperto e prevede determinati cicli di semina e raccolto in specifiche aree e climi adatti a certe coltivazioni. Eppure esiste un nuovo settore economico, in rapida crescita, che vuole ribaltare per sempre queste verità millenarie.
È la cosiddetta “agricoltura verticale”, basata su una combinazione di nuove tecniche e tecnologie, dai sensori intelligenti agli algoritmi, che mirano a creare ambienti controllati in cui coltivare cibo tutto l’anno, incrementando la produzione, diminuendo i consumi e azzerando gli sprechi.
Sembra un libro dei sogni e invece è la realtà che emerge dai dati delle principali aziende del comparto che, soprattutto in certi Paesi, ha un grande sponsor: le Nazioni Unite. Secondo l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), le colture tradizionali consumano moltissime risorse naturali. A livello globale, il settore occupa il 55 per cento della superficie totale dei terreni su cui non sorgono boschi e foreste, consuma l’80 per cento dell’acqua dolce disponibile e il 30 per cento dei combustibili fossili estratti per generare energia.
È indubbio quindi che con una popolazione mondiale arrivata ormai a superare gli 8 miliardi di individui e per eliminare la fame entro il 2030 (secondo obiettivo di sviluppo sostenibile dell’Onu), l’agricoltura debba diventare più sostenibile.
La scommessa dell’Onu
A questo scopo la Fao, insieme ad altre agenzie delle Nazioni Unite, ha lanciato un progetto contro la scarsità idrica in Medio Oriente e Nord Africa, dove centinaia di milioni di persone devono affrontare gravi carenze d’acqua durante l’anno. Come? Puntando sulla cosiddetta “agricoltura protetta”. Tutto si basa sul passaggio dalla produzione agricola all’aperto, assediata dalla desertificazione, dall’aumento delle temperature globali e da fenomeni meteorologici sempre più estremi, alla coltivazione in serre chiuse per ridurre al minimo gli sprechi d’acqua e ovviare al progressivo esaurimento delle riserve idriche sotterranee. Molti Paesi vi hanno già aderito, soprattutto all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Un primo esempio è il Kuwait. Oltre il 90 per cento del territorio del Paese arabo è costituito da deserto. Non sorprende allora che produca soltanto l’1 per cento dei propri raccolti avvalendosi di pratiche agricole tradizionali. Il resto proviene sempre più da serre e “fattorie verticali”, impianti digitalizzati in cui le colture crescono nelle grandi città, eliminando anche il problema delle filiere di approvvigionamento a lunga distanza. Qui tutto è gestito da una piattaforma in grado di seguire le fasi di semina, germinazione e raccolto, monitorando tramite sensori intelligenti gli indicatori di temperatura, umidità, esposizione alla luce, emissioni inquinanti e qualità dell’aria. L’obiettivo è assicurare tassi di crescita più elevati, produrre cibi più sani e consumare meno risorse senza erodere il suolo e contaminare le falde acquifere.
Disponibile in tre gusti
Questi impianti sono generalmente di tre tipi, differenziati in base ai metodi di coltura fuori suolo utilizzati: idroponici, aeroponici e acquaponici. Se il primo richiede la coltivazione delle piante in acqua, il secondo prevede la loro sospensione in aria, mentre l’ultimo combina la prima modalità con l’allevamento ittico.
Il metodo idroponico, il più utilizzato nel settore, si basa sull’immersione delle radici delle piante in acqua ricca di sostanze nutritive, all’interno di un sistema idrico chiuso. La modalità aeroponica, quella che consuma meno acqua in assoluto, nutre invece le piante tramite la nebulizzazione delle sostanze nutritive arrivando, secondo il National Center for Appropriate Technology americano, a diminuire del 90 per cento il ricorso alle risorse idriche. Le strutture acquaponiche invece si avvalgono di sistemi idrici a circuito chiuso popolati da pesci e altri animali acquatici, che producono naturalmente rifiuti poi convertiti in nutrienti per le piante.
Al di là delle metodologie di coltivazione, sono sempre tre i fattori fondamentali per le aziende del settore: le tecnologie hardware per controllare gli impianti, i software per monitorare gli indicatori vitali e di esposizione delle piante e solide conoscenze in campo biologico. Molti puntano infatti l’accento sulla riduzione di manodopera assicurata dall’agricoltura verticale. Ed è sicuramente vero, almeno in termini assoluti. Tuttavia, le competenze del personale impiegato sono molto superiori alla media del settore agricolo tradizionale. Una delle più importanti startup agritech americane, AeroFarms, conta su un gruppo di oltre 200 esperti in scienze vegetali, orticoltura, bio-ingegneria e informatica. L’azienda coltiva oltre 500 varietà di verdure a foglia verde, frutta da tavola e luppolo da birra. I loro impianti sfruttano algoritmi basati sull’apprendimento automatico, sistemi di illuminazione a Led e sensori per il controllo del micro-clima. Per garantire una produzione continua tutto l’anno e cibi sani. Se il rispetto di questa promessa è (in parte) ancora da dimostrare, la combinazione tra tecnologia e sostenibilità ha scatenato l’appetito degli investitori, soprattutto grazie ai positivi indicatori registrati. Parliamo infatti di un mercato enorme che, secondo le stime di Bis Research, entro il 2026 potrebbe arrivare a valere quasi 20 miliardi di dollari. Un tasso di crescita (potenziale) sorprendente, considerando che soltanto dieci anni prima valeva appena un ventesimo.
Un successo rapidissimo
L’affare è davvero colossale: secondo l’AgriFoodTech Investment Report 2021 di AgFunder, gli investimenti globali in aziende tecnologiche agroalimentari sono arrivati nel 2020 a 26,1 miliardi di dollari, in aumento del 15,5 per cento su base annua. Un dato che l’anno scorso potrebbe aver toccato i 30 miliardi di dollari. E le nuove aziende continuano a spuntare come funghi. L’anno scorso, secondo la società di analisi Pitchbook, le sole startup impegnate nell’agricoltura indoor hanno raccolto 1,6 miliardi di dollari, l’86 per cento in più dell’anno precedente. Il settore è infatti in rapida crescita. Stando alla rivista Fortune, tra il 2020 e il 2021 il mercato globale dell’agricoltura verticale è cresciuto del 20 per cento, passando da 3 a 3,6 miliardi di dollari.
D’altra parte, nel settore sta sbarcando anche la grande distribuzione. L’americana Walmart, il più grande rivenditore al dettaglio del mondo, ha deciso di investire proprio nell’agricoltura verticale. Il colosso da 2,2 milioni di dipendenti ha partecipato a un investimento da 400 milioni di dollari in Plenty, che ha stabilito il record per il maggior finanziamento mai ricevuto da un’azienda agricola indoor. La startup americana ha siglato una partnership strategica con il gigante della grande distribuzione, a cui dalla fine dell’anno comincerà a fornire verdure fresche per tutti i suoi punti di vendita in California. Insalata da laboratorio per i detrattori, il cibo del futuro per gli entusiasti. Al punto che Walmart ha tenuto a precisare che «per la stragrande maggioranza» dei propri prodotti freschi continuerà a rifornirsi dall’agricoltura tradizionale. Insomma, nonostante i grandi investimenti si teme ancora che i consumatori non siano del tutto pronti a un tale salto. ●
di Andrea Lanzetta
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