Corriere della Sera, 10 febbraio 2022
La saggezza del beccamorto
(Corriere della Sera, 10 febbraio 2022)
di STEFANO LORENZETTO
Da 47 anni vive tra i morti. A 71 potrebbe smettere, ma lui dice che si diverte così. In effetti è difficile incontrare una persona più radiosa dell’ingegner Daniele Fogli da Ferrara. Eppure è dal 1975 che si sobbarca i compiti più sgradevoli assegnabili a un essere umano. Dove collocare le salme nella prima ondata della pandemia, con la mortalità in certe zone aumentata dell’800 per cento? Chiamano Fogli. Chi riscrive i regolamenti statali e regionali di polizia mortuaria? Chiamano Fogli. Come ristrutturare, gestire o inserire nei piani regolatori i cimiteri di Roma, Torino, Bologna, Genova, Firenze, Verona, Trieste, Rovigo, Arezzo, Faenza, Asti, Gorizia, Trento, Bolzano, Como, Treviso, Mantova, Ravenna, Ancona, Forlì, Foggia, ma anche di località minori quali Casale Monferrato, Cinisello Balsamo, Paderno Dugnano, Follonica e Camaiore? Chiamano Fogli.
Il massimo esperto del «dopo» ha talmente ben presente la precarietà della vita da essere uno dei pochi italiani a non aver mai chiesto un contratto di lavoro a tempo indeterminato: «Mi sono sempre accontentato di incarichi triennali». Puntualmente rinnovati. Anzi, quasi eterni, come quello di presidente del comitato tecnico della Federazione europea dei servizi funerari, ricoperto per ben 22 anni.
L’ingegner Fogli è convinto che dopo la morte qualcosa resti. Infatti è anche l’esclusivista per l’Italia della olandese Orthometals, la prima multinazionale a riciclare i metalli lasciati incombusti dal fuoco in 1.250 dei 6.000 crematori sparsi nel mondo, di cui 87 nel nostro Paese.
«Tempus fugit». Ma le avanza del tempo libero, almeno?
«Poco. Lo uso per i seminari di studio. Credo d’aver formato non meno di 1.500 direttori di municipalizzate, cimiteri e imprese di pompe funebri».
Pensavo che fossimo fatti per il 65 per cento di ossigeno, per il 18,5 di carbonio, per il 9,5 di idrogeno, per il 3,3 di azoto, per l’1 di fosforo e per il 2,7 di altri elementi, oltre a 45 litri d’acqua, 1.250 grammi di calcio, zolfo pari a 2.000 fiammiferi e ferro quanto basterebbe per un chiodo lungo 2,5 centimetri.
«Dimentica dentiere, protesi ortopediche, pacemaker cardiaci, viti, placche. Una volta ho visto persino una baionetta. Solo nella mia pancia avrò dai 100 ai 150 punti metallici, esito dell’asportazione di un surrene subita a 36 anni. Vedendo lo sbrego, mio padre commentò: “Non capisco perché i chirurghi non ti abbiano completato la zip del girovita”».
Che metalli restano fra le ceneri?
«Alluminio, zirconio, vanadio, tantalio. Anche oro e argento. In media, ogni cremazione restituisce dai 300 ai 500 grammi di rifiuti metallici».
Buttarli via sarebbe un peccato.
«Di più: smaltirli comporterebbe una spesa, mentre da costo possono diventare ricavo. Lo intuì subito Ruud Verberne, quando sua figlia Nienke si ruppe una gamba sulle piste da sci. Al chirurgo ortopedico Jan Gabriëls, che stava per operarla, domandò: “Ma un giorno che ne sarà di questa protesi tanto preziosa?”. Così 25 anni fa i due si misero in società e nacque la Orthometals, che dai Paesi Bassi si è allargata fino all’Australia. Oggi ci lavora anche Nienke».
Quanti defunti si contano in Italia?
«In tempi normali, 600.000 l’anno. Più di 200.000 vengono inceneriti. In città come Milano e Bolzano la cremazione riguarda il 75 per cento delle salme. Ma nel Meridione siamo fermi a pochi punti percentuali».
Perché?
«In Sicilia, Calabria, Puglia, Basilicata e Abruzzo mancano gli impianti. Si salva la Campania, che ne ha cinque, per un totale di 13 forni».
Ci si fa cremare per risparmiare?
«Anche. La concessione del loculo al nord costa sui 5.000 euro. Ne aggiunga 4.000 per il funerale. Con la cremazione non si va oltre i 3.500 tutto compreso».
Alla fine sopravvivere è conveniente.
«Da noi la qualità del feretro incide moltissimo. In Gran Bretagna sono più attenti al corteo con le limousine».
È giusto che i morti dell’Ottocento godano di sepolture perpetue e quelli di oggi siano esumati dopo 10 anni?
«I poveri sono sempre stati trattati così. Per i cimiteri non ci sono più soldi. A Ferrara si vendevano 300-350 loculi l’anno. Ora, se va bene, uno a settimana».
Come mai a Roma e a Palermo si accatastano le bare insepolte?
«“Se la sente di preparare un progetto di ristrutturazione dei nostri cimiteri?”, mi chiese Francesco Rutelli, allora sindaco della Capitale. Risposi: ci provo, ma se non ci riesco io, non so chi altro ce la possa fare. Roma ha solo 6 forni, uno dei quali sempre fermo per manutenzione. Sarebbe bastato aggiungerne due nel camposanto più grande, Prima Porta, e due o tre al Laurentino, senza toccare quello storico, il Verano. I litigi fra la municipalizzata Ama e la giunta Raggi hanno completato il disastro».
Invece a Palermo che cos’è accaduto?
«Il Comune non ha proprio le risorse per costruire un nuovo cimitero. Lì servirebbero 4 forni, ma gestiti dall’esercito».
Dall’esercito?
«Esatto. Possibile che il crematorio di Santa Maria dei Rotoli sia l’unico in Italia che si rompe di continuo? C’è qualcuno che lavora per non farlo funzionare».
La mafia?
«Può darsi. Però non ho le prove».
Chi l’ha interpellata nel 2020 per la prima ondata pandemica?
«L’Anci, l’Associazione dei Comuni d’Italia. E subito dopo Luigi D’Angelo, direttore operativo della Protezione civile per il coordinamento delle emergenze. Non si comprendeva che cosa stesse accadendo. Mi hanno chiesto di scrivere in 48 ore alcune regole. Sono stato in chat giorno e notte con i direttori dei cimiteri e gli impresari di onoranze funebri».
Il principale consiglio che ha dato?
«Collocare le bare nei campisanti cittadini. Non serviva mandarle altrove per la cremazione. È stato un errore associare la pandemia al fuoco purificatore, come se si trattasse della peste manzoniana».
A che età vide la prima salma?
«A 11 anni. Quella del mio nonno materno, Sileno, composta nel letto. Non ho mai più pianto così tanto in vita mia».
Che cosa pensò?
«Che non fosse più lui. Io ero abituato a sentirlo parlare. Invece taceva».
Incontra bimbi nelle camere ardenti?
«Pochissimi, purtroppo. È sbagliato. Bisogna portarceli, tenuti per mano dai genitori. Devono sapere che esiste anche la morte nella vita. E guardarla. Invece la vedono solo nei videogiochi e nei telefilm, ed è quasi sempre violenta».
Lei ci avrà fatto il callo, immagino.
«Non accadrà mai. È un lavoro estremamente difficile, sa, parlare con i familiari del defunto e con gli operatori cimiteriali. I morti non sono mica tutti uguali, possono diventare mostruosi. Il personale vive di continuo il dolore e va incontro al burnout. Quelli che la gente chiama becchini talvolta si suicidano. Abbiamo svolto indagini con i medici del lavoro, per aiutarli. Devo ringraziare mia moglie, psicologa, che mi ha assistito».
Ma lei perché scelse questo lavoro?
«Per caso. Ero da due mesi e 20 giorni ispettore dell’Aviazione civile all’aeroporto di Bologna. Volevo avvicinarmi a casa. Vinsi il concorso del Comune di Ferrara. Al primo giorno di servizio, il capo tecnico dei cimiteri mi disse: “Stringi la mano a coloro che scavano le fosse, perché avvertono se hai paura di toccarli”».
Aveva davvero paura?
«Io no. Ma quando questi 100 lavoratori entravano al bar si faceva il vuoto intorno. I loro figli erano emarginati a scuola. Mi accettarono solo il giorno in cui scesi in una buca per scoprire come mai una salma sepolta da 10 anni non era ancora scheletrizzata. Oggi 95 defunti su 100 tolti dai loculi sono inconsunti, fino a 40 su 100 se esumati dalla nuda terra».
Si è mai sentito un reietto?
«Ho sofferto molto. Portavo queste angosce a casa. Non è facile parlarne a tavola. Mi è toccato mettere in conto gli sberleffi di amici e parenti: “A quale defunto hai rubato quell’abito scuro?”. Ormai sono diventato un beccamorto doc».
Ha cercato di cambiare impiego?
«Presentai domanda per diventare direttore del porto di Venezia, ma servivano cinque anni di esperienza come dirigente di un’azienda di trasporti e potei solo specificare che trasportavo morti».
I trapassati per lei sono ossa?
«A volte numeri statistici ed economici. Nel caso di bambini avverto le vibrazioni del dolore a 100 metri di distanza».
Ha deciso di farsi cremare?
«Senz’altro. È la prima scelta che feci appena iniziai a lavorare nei cimiteri».
E le ceneri dove?
«Non mi dispiacerebbe uno dei campisanti dell’Alto Adige, senza muri, attaccati alle chiese. Ma va benissimo anche la Certosa della mia Ferrara. È un museo all’aperto. Un dirigente comunista voleva farmi abbattere il monumento funebre a Giovanni Boldini: “È in stile fascista”. Non gli bastava che fosse stato occultato con una siepe quello a Italo Balbo dietro l’abside del tempio di San Cristoforo».
Ha paura della morte?
«No. Ho paura di soffrire morendo».
Ci pensa spesso?
«Penso solo a domani. Ho ancora troppe cose da imparare».
Non le pare che gli uomini d’oggi si siano dimenticati di doversi congedare?
«Sì. C’è questo senso di onnipotenza, che si accompagna a un’enorme impreparazione sul nostro destino finale. Non si tratta di una dimenticanza. La morte è stata rimossa. Crediamo di poter andare avanti in eterno. Ma non c’è una medicina per tutto. Viviamo in un mondo orribile, lo cantava anche Franco Battiato: “Ah, come t’inganni se pensi che gli anni non han da finire”. Bisogna morire».
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