la Repubblica, 10 febbraio 2022
I migliori collezionisti d’arte sono i medici
Più di una volta Federico Zeri ha raccontato che tra le tante collezioni private testate nel corso della sua lunga carriera, quelle dei medici erano fra le migliori. Ricordava orrori visti in case di categorie professionali assai abbienti, ma di aver spesso ammirato quanto raccolto, con sensibilità e gusto, dai seguaci di Ippocrate. Il motivo è assai semplice: per forma mentis, costoro sono abituati a focalizzare i sintomi e a concatenarli in un insieme per pervenire a una sintesi diagnostica, esattamente come fa uno storico dell’arte capace di interrogare le opere e non solo i libri. Forse non è un caso che uno dei padri fondatori della moderna disciplina storico-artistica, Giovanni Morelli, vi fosse pervenuto dopo studi in medicina. Divenne un conoscitore eccellente (un “attribuzionista”) e in alcuni testi illustrò il suo metodo, che si basava sull’analisi della diversa morfologia anatomica con cui ogni artista definisce a modo suo, ad esempio, orecchie, mani, occhi, bocca… Col tempo la dogmaticità di tale approccio, che orientò in maniera decisiva i passi di Bernard Berenson, è stata messa in discussione. È in ogni caso certo che a uno screening, come si usa dire, gli esperti si affidano quando si trovano di fronte a opere sconosciute, da inquadrare e interpretare.
Vi è una figura emblematica di tali raccordi, poco nota al grande pubblico e che merita attenzione, in virtù di quanto ancora può insegnare a chi oggi si occupa di opere, artisti, collezioni e mercato. Si tratta del medico Giulio Mancini. Nato a Siena nel 1559, si formò all’Università di Padova, entrando in contatto con luminari quali Girolamo Fabrici d’Acquapendente e Girolamo Mercuriale. Si spostò a Bologna, dove frequentò il naturalista Ulisse Aldrovandi, e poi si radicò a Roma, pur mantenendo sempre stretti rapporti con la città natale. Nell’Urbe esercitò presso l’ospedale di Santo Spirito in Sassia, dimostrando un’eccezionale perspicacia (“divinabat”), che gli consentì di conquistarsi la fiducia di molti aristocratici. Tra essi anche il cardinal Francesco Maria del Monte, nel cui palazzo curò Caravaggio, protetto dal prelato. Nel 1623 fu nominato medico personale di papa Urbano VIII e di lì scaturirono ulteriori onori, privilegi e contatti, fino alla morte, occorsa nel 1630. La sua vicenda biografica, oscura fino a poco tempo fa, è stata ricostruita negli ultimi anni, specie grazie agli studi di Michele Maccherini.
Scaltro, risoluto e brusco (ma in tarda età incline alla melanconia), ebbe interessi sui temi più diversi e scrisse molti testi ancora inediti. Le curiosità artistiche risalivano agli anni della formazione senese e patavina, ma fu soprattutto a Roma che forgiò la sua esperienza sul “campo”, frequentando – oltre che i mecenati – artisti di spicco come Caravaggio, appunto, Lavinia Fontana, Annibale Carracci, Cigoli, Passignano, Domenichino, Reni, Lanfranco… Fu proprio grazie a tali contatti che costituì un’eccellente raccolta di dipinti, spesso barattando le sue prestazioni professionali con opere. Non sempre riuscì a ottenere ciò che desiderava: come quando nel 1607 cercò di accaparrarsi, per l’altare di famiglia in San Martino a Siena, la pala con la Morte della Vergine di Caravaggio ora al Louvre. Com’è noto, era stata commissionata dai padri carmelitani di Santa Maria della Scala a Trastevere e rimase in chiesa fino a quando lo scandalo suscitato dal fatto che per Maria si fosse servito come modello del cadavere di una prostituta – che esercitava nella contrada dell’Ortaccio di Campomarzio (una «meretrice sozza delli ortacci», scrisse) – portò alla decisione di disfarsene. Mancini non ebbe dubbi sul fatto che si trattava di un miracolo e, incurante del soggetto sconveniente, tentò di acquistarlo, ma invano.
La sua fama come cultore d’arte si lega alla pubblicazione, nel 1956, di un suo testo noto attraverso alcuni codici manoscritti, intitolato Considerazioni sulla pittura e composto a più riprese tra il 1617 e il 1628. È un trattato di impostazione enciclopedica, caratterizzato da innumerevoli indicazioni in grado di orientare gli appassionati nella corretta comprensione di un dipinto: un vademecum per riconoscere epoche, scuole, mani, tecniche, stati conservativi, per distinguere gli originali dalle copie, determinare i prezzi, scegliere le cornici più adatte... Mancini dà informazioni su oscuri falsari – che utilizzavano «tavole vecchie» e anticheggiavano le superfici «con il fumo di paglia molle» – e su illustri imitatori camaleontici, tra cui Annibale Carracci. Racconta di capolavori antichi scovati presso rigattieri – «come fu la S. Catherina di Michelangelo et il quadro di Raffaello che furono compri a vilissimo prezzo» – o anche moderni, con maestri quali Caravaggio e Jacopo Bassano che a volte svendettero le loro opere. Insegna a leggere i ritratti e le pitture di storia, in cui deve esservi sempre “decoro” e “grazia”, e dà indicazioni su come collocarle nelle abitazioni, raccomandando la «regola del lume» e distinguendo tra case ordinarie e palazzi. In questi ultimi i quadri dovevano essere disposti a seconda dei soggetti, con «le cose di devozione» da porsi nella camera (assieme alle pitture erotiche) e quelle «allegre e profane nella sala». Non mancano informazioni su consuetudini spesso dimenticate, come quella di proteggerli con tendine verticali o laterali: i suoi colori preferiti erano «il verde e l’incarnato» e i tessuti dovevano essere morbidi (come «l’ermesino o taffetà o altra materia di seta che sia arrendevole e mobile»).
Si capisce bene che un testo di questo tipo non solo ci conduce nel cuore della realtà produttiva, mercantile e collezionistica della Roma di primo Seicento, ma soprattutto ci spalanca una mentalità. Purtroppo, l’edizione del 1956 è ormai una rarità bibliografica e – al di là di un estratto proposto nel 2005 da Cristina De Benedictis e Roberta Roani – non si dispone di una qualche edizione di quest’opera capitale, la cui lettura integrale e lenta servirebbe a tanti studenti di storia dell’arte più di chissà quale master specialistico. La sua figura è moderna anche per la capacità di cogliere gli andamenti del gusto: a un certo punto riconosce che i grandi collezionisti si sono abituati «alle cose exquisite, che l’ordenarie non vogliono». Esattamente come oggi, per cui solo i pezzi eccezionali – per paternità, qualità, stato conservativo, storia, rarità iconografica – possono sedurre gli acquirenti più ricchi, mentre ciò che è di livello medio o basso, non lo vuole quasi più nessuno e intere tipologie di oggetti un tempo elitari (come gli argenti antichi) si vendono a peso. Sono le cicliche oscillazioni del mercato, legate alle mode. Mancini teneva in considerazione anche questo fattore e, temendo un progressivo crollo d’interesse pure per i dipinti, scrisse testualmente: «Se vi venisse occasion di vendar tutte le pitture fatelo, perché son d’oppenione che sia di loro intervenir quello ch’è intervenuto delle medaglie, che quello che si vendava a scudi si vende adesso a peso per fondere». Così fece egli stesso. E nel 1620 decise di alienare la sua intera quadreria, messa insieme con amore paziente e cinica scaltrezza