la Repubblica, 10 febbraio 2022
Ragazzi, non dovete aver paura della maturità
Capisco molto bene la preoccupazione degli studenti per la qualità dell’insegnamento ricevuto in Dad negli ultimi due anni. Capisco ancora meglio il disagio di una generazione di adolescenti che proprio nel momento in cui avrebbe dovuto incominciare a uscire di casa liberandosi almeno un po’ della famiglia si è trovata in lockdown. E soprattutto capisco (o credo di capire, visto che a me fortunatamente non è successo) che cosa significhi, per studenti di ogni ordine e grado, essere privati dell’esperienza sociale della vita in classe.
Proprio per questo, non capisco che ragione ci sia di aver paura della reintroduzione delle prove scritte alla maturità, e non lo capisco sia per ragioni specificamente legate alla scuola, sia per ragioni legate alle trasformazioni tecnologiche degli ultimi venti-trent’anni.
Quanto alle ragioni scolastiche, se c’è una cosa che non cambia in Dad, a meno che uno si decida a copiare (il che è possibilissimo, ma è un altro paio di maniche) è proprio una prova scritta. Che io scriva un tema su Le mie prigioni (se ne scriveranno ancora? Ne dubito, anzi lo spero, Pellico è insopportabile e personalmente tifavo per gli austriaci che avevano imprigionato quel piagnucolone) a casa, in prigione o a scuola in linea di principio cambia poco. E questo vale per le versioni dal latino, gli esercizi di matematica, ecc. Quanto alle ragioni tecnologiche, vorrei richiamare una circostanza. In Come si fa una tesi di laurea, uscito nel 1977, Umberto Eco osservava a ragione che uno dei maggiori problemi dei tesisti (che allora si chiamavano “laureandi”) che l’ultima volta che avevano preso la penna in mano prima della tesi era al tema di maturità, ossia quattro o cinque anni prima.
Oltretutto, si parlava proprio di “penne”, della manoscrittura di temi, traduzioni, esercizi, mentre la tesi si trattava di scriverla a macchina, e per quasi tutti, ovviamente me compreso, si è trattato di imparare le regole, tutte differenti, del come sviluppare il proprio pensiero usando le dita per picchiare sui tasti invece che per stringere la penna e farla scorrere sulla carta.
Né l’una né l’altra difficoltà si presenta per chi oggi ha diciannove anni, e dunque dall’età dell’alfabetizzazione non ha fatto che scrivere una quantità quotidiana di parole superiore alla produzione media giornaliera di Dickens, e ha incominciato a picchiare sui tasti spesso anche prima di imparare a leggere nel senso più formale e rigoroso del termine.
Insomma, gli studenti si rassicurino e si consolino: come il Monsieur Jourdain di Molière aveva sempre parlato in prosa senza saperlo, così loro hanno scritto componimenti misti di storia e d’invenzione da quando possiedono un telefonino, e hanno scritto per ragioni private molto più che per ragioni scolastiche (cosa che, di nuovo, prima di email e whatsapp e simili sarebbe apparso incredibile).
Sono ben consapevole della sacrosanta obiezione: scrivere un tema non è semplicemente picchiare su una tastiera, è prima di tutto riordinare le idee prima di scrivere (almeno un po’), e imparare a esporle in maniera chiara e se possibile non convenzionale e attraente. Ma vorrei far notare che anche per le generazioni pre-web era così, e che non è mai facile, per nessuno, tanto che grandi scrittori sono stati trattati malissimo (il più delle volte a ragione) dai loro professori. Cito quest’ultimo caso solo perché l’ho appena letto nella notevole biografia di Pierre Drieu la Rochelle scritta qualche anno fa da Jacques Cantier. Studente brillantissimo e lettore insaziabile sin dall’infanzia, Drieu era il migliore allievo di Sciences Po nella promozione del 1913. Il tema era sui trattati del 1815, Drieu ci mise tutto il suo impegno ricevendo un voto bassissimo e un giudizio tombale: “Vaticinazione intorno a un argomento che non è né posto né trattato. Stile atroce”.
Drieu vagò per giorni lungo la Senna meditando il suicidio, iniziò un ribellismo che lo portò alla collaborazione con i tedeschi e poi a un suicidio, questa volta non pensato ma agito, che lo riscattò. Dico questo per rassicurare gli studenti: qualcosa mi dice che nulla del genere accadrà loro; che il diavolo non è così brutto come lo si dipinge; e che soprattutto non devono sottostimare abilità e competenze che possiedono molto più di quanto non credano.