il Fatto Quotidiano, 10 febbraio 2022
Le lettere di Burroughs tra sciamani, proiettili e trip
“Farò bene a conservare le mie lettere, magari riusciamo a ricavarci un libro quando mi sarò fatto un nome” scrive William S. Burroughs da Città del Messico nell’aprile 1952 all’amico Allen Ginsberg. Profezia indovinata perché settant’anni dopo Adelphi manda in libreria Il mio passato è un fiume malvagio, una sua selezione di lettere che vanno dal 1946 al 1973. “Schegge di nerissimo humour vitreo” le definisce il curatore del volume Ottavio Fatica.
In effetti sono lettere che riflettono uno stile acido e visionario, lo stesso delle sue opere. Un epistolario che si legge come un compendio di tutte le ossessioni che hanno scandito gli 83 anni di vita di questo “ragazzo dagli occhi di ghiaccio” che negli anni Sessanta fu tra i protagonisti della Beat Generation. Fatica nella postfazione inchioda quella fiammata di controcultura a un ritratto smitizzante: “Erano una cabaletta di velleitari un po’ svitati, un paio dei quali dotati di talento, circuiti da un démi-monde di delinquentelli esotici. Il tempo di conoscerlo e fecero di Burroughs il loro guru. Si abbeverarono alla sua biblioteca. Lo trovavano così inglese, con le sigarette Senior Service e quei modi antiquati”. Non a caso i destinatari più ricorrenti in cima alle missive sono Allen Ginsberg e Jack Kerouac. Si sente l’eco di quel nomadismo ancorato alle filosofie orientali che fu il tentativo di emanciparsi dal sogno americano.
Burroughs, nipote dell’inventore della calcolatrice e mantenuto dalla famiglia, sebbene omosessuale si sposò due volte. Nel 1951, alterato da alcol e droga, in un gioco alla Guglielmo Tell con un bicchiere sulla testa, uccise accidentalmente la moglie Joan con un colpo di arma da fuoco e fuggì in Messico. In una lettera del 1955 si tormenta: “Perché non ho lasciato perdere? Perché, perché?”. Burroughs, che aveva conosciuto Ginsberg nel 1944 al Greenwich Village, scrive molte lettere da Tangeri al suo sodale nei mesi in cui è impegnato nella stesura di Pasto nudo. Nel 1954 confessa: “Sto cercando di scrivere un romanzo. Mi sparo in vena ogni quattro ore”. Ecco il demone che contrassegnerà la sua esistenza dissipata: la dipendenza dalle droghe. Sempre a Ginsberg da Lima racconta: “Ho conosciuto uno sciamanetto senza pretese che mi ha preparato un po’ di yage. Per la prima volta mi sono goduto la botta. È la droga più potente che abbia mai provato. Cioè provoca il più assoluto squilibrio sensoriale. Vedi tutto da uno speciale punto di vista allucinato. È un folle e soverchiante stupro dei sensi”.
Se è vero, come scrive, che “l’unico modo che ho per scrivere narrativa è uscire dal mio corpo e viverla”, altrettanto vero che da Parigi, nel 1961, scrive allo studioso della psichedelia Timothy Leary: “Sarei molto interessato a provare i funghi e a scrivere del trip come ho fatto con la mescalina. Potrebbe essere interessante stilare un’antologia di scritti prodotti sotto l’effetto dei funghi. So che il mio lavoro e la mia comprensione hanno guadagnato in modo tangibile dall’uso degli allucinogeni”. Prova a liberarsi della Scimmia sulla schiena, per richiamare un altro suo titolo, ricorrendo all’apomorfina, terapia allora sconosciuta che anticipa il metadone.
Burroughs, che credeva agli Ufo e che riteneva gli psichiatri “servi della classe dirigente”, brucia della stessa sincerità degli sregolati. Non le manda a dire a Truman Capote quando nel 1970 demolisce A sangue freddo: “Ha scritto un insulso libro illeggibile che potrebbe aver scritto qualsiasi redattore del New Yorker”. Del resto anche con gli amici non è tenero. Si lamenta di Kerouac, con il quale scrisse a quattro mani nel 1945 E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche, suo ospite a Città del Messico: “Se n’è andato prendendo in prestito i miei ultimi 20 dollari, che ha promesso di restituirmi non appena arrivato negli Usa. Sono passati quasi due mesi. A dirla tutta, non ho mai avuto sotto il tetto un ospite così sconsiderato ed egoista”.
Scrittore venerato da rockstar come David Bowie, Lou Reed, Patti Smith, Burroughs muore di infarto nel 1997 nel segno della leggenda: “Dandy fino all’ultimo, per la sepoltura lo vestirono di tutto punto, con gli occhiali nel taschino e una penna stilografica nella tasca interna. Più una moneta da cinque dollari in oro dell’Ottocento, tre spinelli e un sacchetto di eroina. Al fianco la P38 speciale a canna corta, con cinque colpi, quella che teneva sotto il cuscino di notte”.