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 2022  febbraio 10 Giovedì calendario

Intervista a Jovanotti

«La musica c’è sempre stata, anche in questi due anni. È ascoltarla insieme che fa la differenza». Jovanotti sa che i suoi dischi sono quella cosa lì: le canzoni che balli in una danza collettiva, come accadrà dal 2 luglio in poi quando ripartirà il Jova Beach party e le spiagge d’Italia faranno festa; quelle che ascolti con qualcuno, magari solo in due, ma dividendo le cuffie come si faceva una volta. È in questo che Sanremo ha interpretato «lo spirito del tempo»: ha riportato in vita «un rito collettivo, ha fatto sì che per una settimana non parlassimo più di quel che ha dominato le nostre vite in questi anni, che saranno anche solo due, ma sembrano 300». Lorenzo appare su Zoom dalla sua casa di Cortona. Sul volto l’energia di chi si è chiuso in studio a provare i pezzi nuovi del disco del Sole (alle canzoni dell’Ep Primavera se ne aggiungeranno tra poco almeno altre cinque), dietro di sé i mille colori di una carta da parati modello giungla. Nella stanza ci sono i cappelli, le chitarre, i tappeti preferiti, come quello che gli ha regalato a Natale la moglie Francesca. I libri in cui si è immerso per continuare a viaggiare da fermo: «Sono stato ovunque: in Iran, Cina, tre volte in Antartide, e ho scoperto il Polo Nord!».
«Sanremo è stata una botta», racconta subito. «Me ne accorgo da come mi sveglio al mattino». Un’emozione come per tutto quello che si può vincere o fallire. Perché «gli artisti sono acrobati, vivi sul filo, sai che puoi cadere da un momento all’altro. Quando inizi non ci pensi: c’è un elemento di ingenuità che bisogna sempre mantenere. Se fai un disco che sai già com’è, rischi che suoni trombone: è il peggio che ti possa succedere». Mentre il pop «funziona quando è ingenuo, quando c’è dentro una scoperta. I cantanti imparano sempre qualcosa. Non insegnano niente».
Cosa c’era di diverso in questo Sanremo?
«Ho sentito subito che vibrava bene. Un Paese che non ha musica dal vivo da più di due anni è un Paese cui è mancato qualcosa di profondo, al di là della giusta questione del settore in crisi. È un bisogno che è rimasto seppellito. E Sanremo è stato perfetto: sono così rari i momenti in cui tante persone decidono di guardare insieme una diretta. Oltre al mondiale di calcio non mi viene in mente nulla. Nella frammentazione delle nostre vite, oggi che passiamo serate a cercare di decidere cosa guardare on demand per poi non guardare niente, è stato come ritrovarsi».
Sul podio, insieme a Gianni Morandi con la canzone che hai scritto per lui, sono saliti Mahmood e Blanco ed Elisa, arrivati al primo e al secondo posto.
«Ed è stato perfetto così. Il podio più bello di sempre. Tre generazioni, tre mondi musicali diversi, ma col respiro giusto: Morandi vecchia scuola, ma non antico; Mahmood e Blanco con un pezzo che parla anche alla generazione di Gianni; Elisa che è un’artista fantastica. Anche la successione, perfetta. Alchemica».
Com’è nata l’amicizia con Morandi?
«Ci siamo incontrati in alcune trasmissioni televisive, tantissimo tempo fa. E lui è sempre venuto ai miei concerti. Al Jova Beach Party è salito a cantare sul palco ed è stato bellissimo. Così quando ha avuto l’incidente gli ho mandato un messaggio. L’ho sentito giù, era come “demorandizzato”. Impaurito da questa cosa che gli era successa. L’ho richiamato dicendogli: “Ho un pezzo per te, se lo canti tu si fa notare"».
Lì è scattata l’amicizia, con L’allegria?
«All’inizio non era convinto. È un pezzo tirato, quasi punk, molto parlato. Gli ho detto: “Proviamoci”. E il giorno in cui ci siamo ritrovati in studio a Milano si è sbloccato qualcosa. In lui, ma anche in me. Abbiamo cantato e riso come dei pazzi. Lui non riusciva, io gli insegnavo, poi imparavo io. Uno di quei giorni in cui dici: che bella la vita».
Gliel’hai regalato perché guarisse dalla paura?
«Gliel’ho regalato perché funzionava. La musica è sempre la risposta. Per lui come per me, è lavoro. È quello che ci guarisce perché ci dà dignità, ci fa sentire parte del mondo, importanti, accettati. Invece di stare a casa a fare la fisioterapia, si è messo a lavorare».
Sia L’Allegria che Aprite tutte le porte, ma anche Il Boom, La Primavera, sono pezzi che sanno di ripartenza.
«Per me è come un dopoguerra. Come la foto di Times Square con i due che si baciano. È la musica di cui sento il bisogno in questo momento. Credo di essere il cantante italiano che ha fatto più pezzi da ballare e così è stato per Sanremo. Gianni mi ha detto che voleva andare in gara, non da superospite. Non voleva una canzone da reduce, che facesse scattare un ricatto emotivo, ma un brano che portasse il sole».
Sanremo ha premiato un ragazzo di 18 anni e ha consacrato musica nuova. Il che sembra contraddire quanto avvenuto la settimana prima in Parlamento: la politica che fa mille giri per poi riaffidarsi a due grandi vecchi come Draghi e Mattarella.
«Nella musica i centri di potere sono caduti. Una volta tutto era in mano alle grandi case discografiche, ora puoi arrivare a 19 anni da una provincia italiana e sfondare con mezzi di produzione accessibili a tutti. Lo stesso vale per la distribuzione, metti il brano su internet e se funziona hai vinto. La disintermediazione della musica ha fatto sì che il talento, le idee si facciano strada senza bisogno di passare da un centro di potere. Una volta l’America si sentiva al centro del mondo e aveva inventato la categoria della World music, parola inutile che definiva tutto quello che non era anglofono. Adesso non esiste più perché nella classifica di Billboard ci sono gruppi colombiani, musica della Nigeria. Un ragazzino di Lagos può accendere il telefonino e fare una hit mondiale. O può succedere una cosa bellissima come quella dei Måneskin».
Ti piacciono?
«Ottengono effetti positivi a tutto campo: riescono a far dire ai nostalgici del rock: è tornato il rock. Mentre i ragazzini che non conoscono i Red Hot o i Led Zeppelin scoprono qualcosa di nuovo. Hanno fatto qualcosa che era difficile immaginare, tranne per qualcuno: loro. Guardandoli nelle prime performance vedi che ci credono, che gli piace, che sono devoti a quello che fanno. Non sono lì per farsi vedere con l’aereo privato o le scarpe fiche, sono lì perché amano la musica. E la verità è più forte di tutto. Se sei autentico, sfondi».
A proposito di disintermediazione, in politica non ha tanto aiutato il rinnovamento. Anzi.
«Non è il tempo giusto, questo, per cercare qualcosa di nuovo. Stiamo vivendo un momento difficile in cui è stato normale riaffidarsi a Mattarella. C’era bisogno di affidabilità e questa scelta mi è sembrata anche saggia, dopo la paura, il senso di pericolo che abbiamo attraversato. Adesso ci sono i vaccini e quasi non ci pensiamo, ma c’è stato un momento in cui sapevi che se ti ammalavi morivi. Ho trovato Mattarella perfetto in alcuni passaggi critici. Da solo davanti all’altare della patria ha incarnato la sacralità del Paese: penso che invece di lamentarci dovremmo essergli grati. E che arriverà il tempo in cui la politica saprà rinnovarsi».
Dopo il lockdown, la dad, la chiusura, i giovanissimi sono tornati nelle piazze. Qualche settimana fa trovando manganelli, invece che ascolto. Tua figlia Teresa ha 23 anni, conosci questa generazione da vicino. Cosa pensi di quest’onda?
«Penso che quello che hanno vissuto sia stato più duro di quel che possiamo percepire e che le conseguenze potrebbero avere una lunga coda. Ma la presenza dei ragazzi in piazza dimostra la voglia di recuperare fiducia nel proprio corpo come strumento di condivisione. Il vero messaggio è essere lì. Ognuno faccia il suo lavoro, cercando di capire come recuperare il tempo perduto. Ma io sono fissato con questa cosa: siamo tutto insieme, corpo spirito anima, inscindibili. Protestare significa essere vivi».
Leggi poesie su Instagram, ne hai portata una a Sanremo. Ha a che fare con il lavoro di scrittura per la tua musica?
«La poesia è sempre stata una presenza, addirittura a scuola, ma ne ho assunto dosi massicce in questi ultimi due anni. Rafforza le difese emotive. Poi a Sanremo ho sbagliato, non ho spiegato bene perché ho definito Mariangela Gualtieri “un poeta": dopo aver letto una sua raccolta le avevo scritto, “Cara poeta”, e lei aveva detto che amava essere definita così».
Cercavi di sottolineare il significato universale della parola, ma chi cerca sempre l’errore ha pensato volessi svilire il suo essere donna non dicendo poetessa.
«Su Internet ci sarà sempre qualcuno pronto a indignarsi. Non mi sorprende e anzi mi interessa: sono sintomi, segnali. Lo scontro sulle parole è dato dal fatto che sono tornate al centro. Pensavamo non avremmo scritto più nulla e invece continuiamo a scrivere. E mi interessa molto anche il tema della lingua che cambia. Perché è qualcosa che arriva dal basso, cambia anche se non vuoi, per strada dove la gente la usa. Gli accademici possono intervenire solo dopo, a registrare quanto già successo, non possono guidarla. A volte sulle parole litigo con Teresa: lei mi corregge, io le do retta. Solo una cosa le dico sempre rispetto ai ruoli e ai generi, che loro – a vent’anni – vivono molto diversamente da noi: “Mi auguro solo che per affermarti tu non debba assumere degli atteggiamenti maschili perché sono quelli dominanti”. L’atteggiamento maschile è pieno di falle, di buchi. Ha imposto nel linguaggio parole belliche riferite a tutto. Anche alla malattia, che non è una lotta, una guerra, perché non c’è chi vince e chi perde. È una cosa che capita. Bisogna cambiare questo linguaggio. Se lo facciamo, cambia la realtà».