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 2022  febbraio 10 Giovedì calendario

Gli insulti dei carabinieri ai due americani assassini

Nel giorno della prima udienza del processo di appello che vede alla sbarra Christian Gabriel Natale Hjorth e Finnegan Lee Elder, i due ragazzi californiani accusati dell’omicidio del vicebrigadiere dei carabinieri Mario Cerciello Rega, sono i contenuti delle chat – depositate in un altro procedimento, quello sul bendaggio di Hjorth – a ravvivare un secondo grado che appariva già segnato dopo la robusta sentenza del tribunale di Roma, che il 5 maggio 2021 ha condannato i due studenti americani all’ergastolo. Le frasi choc sono contenute nei messaggi scambiati su WhatsApp tra carabinieri a partire dal 26 luglio 2019, a poche ore dal brutale omicidio del collega e pochi minuti dopo la comunicazione dell’avvenuto arresto dei due. «Bisognerebbe squagliarli nell’acido: sarebbe la miglior vendetta», commenta qualcuno. «Speriamo che gli fanno fare la fine di Cucchi», scrive qualcun altro. «Pestateli più che potete», il suggerimento di un altro ancora. Insomma sono parole pesanti come macigni quelle scambiate in chat dai militari e depositate nei giorni scorsi nel processo a carico di Fabio Manganaro, il militare dell’Arma che è finito sotto inchiesta con l’accusa di aver utilizzato una «misura di rigore non prevista dalla legge» per la vicenda del bendaggio di Natale Hjorth, avvenuta nella caserma dei carabinieri di via In Selci, nelle interminabili ore seguite all’arresto dei due statunitensi. Alle 10 c’è il primo messaggio: «Li abbiamo presi stiamo venendo al reparto», scrive un militare. Le risposte vanno in un’unica direzione: «Ammazzateli di botte». Con in più il doloroso, esplicito riferimento all’omicidio preterinzionale di Stefano Cucchi, il geometra romano morto in conseguenza di un pestaggio in caserma nel 2009. Su quelle frasi cala, pesante, il «no comment» di Ilaria Cucchi.
L’Arma adesso, stigmatizzando quei «toni offensivi ed esecrabili», valuta provvedimenti nei confronti degli autori di quelle affermazioni. Non tutti in quelle chat paiono d’accordo. C’è chi percepisce i rischi, chi tenta di placare gli animi. «Li dovrebbe prendere un’altra stazione perché seriamente c’è il rischio che appena sbagliano a parlare li pestate...», scrive qualcuno. «Sì ma qualche mazzata ai coglioni se la prenderà, alla fine non si torna indietro», commenta un altro collega. E i più aggressivi ribadiscono: «Non mi venite a dire arrestiamoli e basta. Devono prendere le mazzate. Bisogna chiuderli in una stanza e ammazzarli davvero. Uno dei militari racconta anche ciò che sarebbe accaduto in caserma: «Appena lo hanno portato al reparto operativo ho buttato uno schiaffo a uno, poi mi hanno fermato i colleghi. E nel frattempo buttavo io le ginocchiate sul petto», scrive. Altri minimizzano: «Ma non gli hanno alzato così tanto le mani». Poi ci sono dialoghi del giorno dopo, quando proprio sul sito de «La Stampa» era stata pubblicata la foto del bendaggio. «Com’è uscita la foto?», chiede qualcuno. «Una cavolata», dicono. Qualcuno ha dubbi: «Dici forse si poteva evitare?». E altri offrono la loro spiegazione: «È stato bendato per sicurezza. Poteva sbattere la testa ovunque». Inequivocabile la reazione del Comando Generale dell’Arma, che in una nota dice di aver avuto notizia dei «contenuti di alcune chat intercorse tra militari dai toni offensivi ed esecrabili». «Non appena gli atti con i nominativi dei militari coinvolti saranno resi disponibili – si legge nel comunicato – l’Arma avvierà con immediatezza i conseguenti procedimenti disciplinari per l’adozione di provvedimenti di assoluto rigore». Una puntualizzazione arriva anche dall’avvocato Roberto De Vita, difensore di Manganaro, accusato del bendaggio di Hjorth: «Il maresciallo Fabio Manganaro non ha mai pronunciato né scritto nessuna delle parole riportate nelle chat e tali fatti non sono contestati a Manganaro – spiega -. Si tratta di conversazioni intervenute tra altri militari che semmai dimostrano chiaramente in quale contesto il maresciallo Manganaro ha operato ed è riuscito a garantire l’incolumità del fermato».
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