Corriere della Sera, 9 febbraio 2022
Il diritto di uccidere il tiranno
L’uccisione di Cesare può essere considerata un tirannicidio? In senso stretto, no, scrive Aldo Andrea Cassi in Uccidere il tiranno. Storia del tirannicidio da Cesare a Gheddafi, pubblicato da Salerno Editrice. I suoi assassini, è vero, sostennero di averlo ucciso proprio perché stava instaurando un regime dittatoriale. Cesare, però, non venne trattato dai suoi contemporanei (né dai posteri) alla stregua di un tiranno. In quel caso non gli sarebbero stati tributati «onori divini». E non sarebbero state mantenute in vigore le leggi emanate sotto il suo governo. Furono conservate tutte, nessuna esclusa. Ma lo si può considerare ugualmente un tiranno dal momento che nei confronti dei suoi uccisori non furono assunti «provvedimenti sanzionatori». Neanche uno. Anzi, nei confronti di Bruto e Cassio (quantomeno in un primo momento) vennero riservati «gli onori e i benefici che si attribuiscono ai liberatori della patria». Strano, no? Un singolare rompicapo che intrigò William Shakespeare e non solo lui. Ci troviamo in presenza di due pugnalatori che però non furono subito perseguitati e puniti, scrive Cassi. Ma senza che ci sia stato un tirannicidio (dal momento che, come si è detto, i concittadini di Cesare non identificano l’ucciso come tiranno). Una soluzione politica «geniale» che evidenzia la capacità romana di «conciliare gli opposti». Soluzione che lasciò «aperta la questione sotto il profilo giuridico e istituzionale». Anche per questo l’assassinio di Cesare «rappresenta per lo storico uno dei più avvincenti omicidi politici»: non solo perché costellato «di retroscena, tradimenti, doppi giochi, congiurati incerti, mandanti eccellenti rimasti nell’ombra, esecutori pavidi, cinici complici»; ma anche in quanto «carico di colpi di scena, presagi funesti, intoppi grotteschi, circostanze misteriche, misteriose coincidenze, e una suspense che non si scioglie nemmeno alla prima, tremebonda e inerte, pugnalata».
Ci sono dunque casi di «tirannicidi» senza «tirannicidio». Un bel problema, messo in evidenza già ai tempi da Cicerone. Cesare, sostenne l’arpinate, ancorché non potesse essere considerato in tutto e per tutto un despota, si era reso responsabile di azioni che avevano «assicurato» ai suoi uccisori non soltanto l’impunità, ma addirittura «una grandissima gloria». Lungo questa via di riflessione, da buon giurista, afferma Cassi, Cicerone evidenzia la contraddizione tra la «legittimità dell’uccisione di Cesare» e «il mantenimento in vita di tutti i decreti che aveva emanato». Si determina nelle pagine ciceroniane, «e quindi nella cultura romana», un «corto circuito tra configurazione giuridica del tirannicidio e sua opportunità politica». Non tutto è chiaro. Il tirannicidio è giuridicamente «legittimo», politicamente «doveroso». Ma le conseguenze possono portare ai «liberatori» morte anziché buona fama.
La categoria del tirannicidio si era già ingarbugliata secoli prima dell’uccisione di Cesare. A partire dalla definizione del tiranno. La prima apparizione del termine «tirannide» è in un verso di Archiloco (VII secolo a.C.) dedicato a Gige, che regnò sulla Lidia dopo averne assassinato il re, Candaule, del quale era guardia del corpo. Gige aveva ucciso Candaule su commissione della moglie dello stesso re, la quale sosteneva di aver subito oltraggio dal consorte. Moglie che, in tempi successivi, Gige sposò (lo riferisce Erodoto). Anche qui tutto è assai strano. Il primo tiranno della storia greca, nota Cassi, diviene tale dopo aver preso il potere di un regno «uccidendone il legittimo sovrano e sostituendosi a questi sia sul trono che nel talamo». Curioso è il fatto che Erodoto parla di Gige prima come di un normalissimo «re» e solo in un secondo momento lo definisce «tiranno». Termine a cui, inizialmente, Erodoto non dà una valenza necessariamente negativa. La condanna diventa tale quando Erodoto mette in evidenza i caratteri asiatici del regno di Gige. In ogni caso il primo tiranno, Gige, uccisore di un re, non viene punito per il misfatto: muore in battaglia contro i Cimmeri e gli succede il figlio Ardis. Siamo in presenza di un tiranno il quale, anziché essere ucciso da pubblici vendicatori, ha l’opportunità di trasmettere poteri e legittimità al figlio. C’è il tiranno, ma non il tirannicidio.
Per fare la conoscenza dei primi tirannicidi della storia bisognerà attendere Armodio e Aristogitone, uccisori nel 514 a.C. di Ipparco, figlio di Pisistrato e fratello di Ippia. Anche qui la storia è alquanto strana. Erodoto è particolarmente indulgente nei confronti del primo vero tiranno di Atene, Pisistrato, padre di Ippia e di Ipparco. Generoso nei confronti di Pisistrato sarà anche Plutarco. Pisistrato viene presentato da entrambi, Erodoto e Plutarco, come un uomo capace di parlare, ragionevole, moderato, gran mediatore, eccellente capo militare. Se si trasforma in un tiranno, per Erodoto, la colpa è del popolo ateniese. In che senso? Per ben tre volte il popolo ateniese gli concede – nonostante sia espressamente vietato – di tornare alla guida della città. E lo autorizza a dotarsi di una milizia personale (composta da trecento mazzieri). Anche lui, come Gige, viene in qualche modo assolto dai contemporanei tant’è che gli è concesso, in punto di morte, di lasciare potere e legittimità nelle mani del figlio Ippia (527 a.C.). Il quale Ippia sarà un tiranno meno abile del padre e alla fine verrà cacciato – lui sì, nel 510 a.C. – dai concittadini. Talché Ippia andrà ad allearsi con i Persiani di Dario e li guiderà nella battaglia di Maratona dove nel 490 a.C. verranno sconfitti dagli Ateniesi di Milziade. Ma cosa c’entra tutto questo con il primo tirannicidio?
Per rispondere bisogna seguire una via alquanto tortuosa. La prima uccisione di un presunto tiranno era stata consumata quattro anni prima della fuga di Ippia. Ad essere ucciso era stato suo fratello Ipparco, l’altro figlio di Pisistrato. I motivi di questo assassinio, però, non erano stati politici: il fratello di Ippia era accusato di essersi invaghito del giovane Armodio, «impegnato» con il potente aristocratico Aristogitone. Il quale (assieme ad Armodio) avrebbe ucciso Ipparco per punire il suo «oltraggio». Tucidide in proposito è esplicito: «L’azione di Aristogitone e Armodio contro Ipparco fu intrapresa per una questione amorosa». Ma allora perché si parla di tirannicidio? Per il fatto che – per colpire con uno stigma negativo Ipparco, ma anche, obliquamente, Pisistrato e Ippia – ad Armodio e Aristogitone furono attribuiti all’istante onori straordinari, spropositati, inauditi. Per loro vennero celebrati sacrifici. Stando a Plinio, fu il primo caso in Atene di una statua, quella per Armodio e Aristogitone, eretta a celebrazione di uomini ancora in vita. Mortali nonché, particolare non trascurabile, omicidi. Accantonate le dispute amorose, fu questo lo stratagemma per colpire con uno stigma negativo Ipparco ma anche, obliquamente, Pisistrato e Ippia. Fu prontamente cambiata la motivazione dell’assassinio. Si trattava, scrive Cassi, di «rendere memorabile quale fosse la legittima fine di chi si faceva tiranno», di chi, cioè, «poneva sé stesso al di fuori (e al di sopra) delle regole stabilite dalla politeia». Il conto finale non lo si era potuto presentare a Pisistrato dal momento che quest’ultimo era stato capace di sedurre il popolo, di esibire doti di stratega ed era dotato per giunta di grande carisma. Secondo Aristotele, Pisistrato era «più che democratico» aveva regnato in «un’epoca di fioritura economica», anche se non è detto che ciò fosse avvenuto per suo merito. Quel conto di cui si diceva veniva dunque fatto pagare, con la vita, al (quasi) incolpevole Ipparco.
Quello delle origini «greche» del tirannicidio è un tema trattato anche di recente da molti autori. Cassi esprime «perplessità» nei confronti di Waller R. Newell che – in Tiranni. Una storia di potere, ingiustizia e terrore (Bollati Boringhieri) – distingue i despoti in fantasiose categorie. Per una «messa a fuoco della cornice concettuale entro cui si sviluppa la questione del tirannicidio nella cultura greca», l’autore suggerisce piuttosto il libro di Mario Vegetti Chi comanda nella città. I Greci e il potere (Carocci). Ma anche Atene la città inquieta (Einaudi) di Mauro Bonazzi, La democrazia. Storia di un’ideologia (Laterza) di Luciano Canfora e Sparta e Atene. Autoritarismo e democrazia (Einaudi) di Eva Cantarella.
Da Atene, passando per Roma antica, il tema della liceità del tirannicidio passa alla tradizione cristiana dove è costretto a misurarsi con prescrizioni che raccomandano il ripudio di azioni sanguinose. Il problema si pone a Origene di Alessandria (185-232) già nel secondo secolo d.C. nel Contra Celsum (scritto per controbattere a un filosofo neoplatonico che metteva in evidenza alcune contraddizioni del cristianesimo). Per fare chiarezza saranno necessarie ulteriori messe a punto di Agostino d’Ippona (354-430) e di Gregorio Magno (vissuto alla fine del VI secolo fino all’alba di quello successivo). Quest’ultimo però considerava il tiranno – come da tradizione – uno strumento della provvidenza divina tramite il quale venivano punite le colpe di un popolo. Sarà solo Giovanni di Salisbury (1115-1180) che stabilirà essere il tirannicidio non soltanto «lecito» ma anche «equo e giusto». Sino a Dante che punirà i «cesaricidi» la dannazione più grave di tutto l’Inferno salvo poi, nel VI canto del Purgatorio, mettere in bocca al poeta Sordello da Goito la deprecazione contro le «città d’Italia piene di tiranni» che implicava una giustificazione degli uccisori dei despoti. Un’invettiva condivisa con Francesco Petrarca, Boccaccio, Luca da Penne, il canonista Giovanni d’Andrea. Giuristi e letterati, scrive Cassi, «paiono alleati nella denuncia di una Italia in preda ad una moltitudine di tiranni». Denuncia che farà da sfondo a una dottrina per la quale abbattere quei tiranni è legittimo a patto che sia evidente il carattere di ingiustizia del loro regime dispotico e che «l’azione sovversiva non sia rimedio peggiore del male». E siamo nuovamente su un terreno sdrucciolevole.
Sarà Bartolo da Sassoferrato (1313-1357), uno tra i più autorevoli giuristi medievali, a stabilire una volta per tutte – in continuità con la denuncia di Dante Alighieri e con l’elaborazione teologica di Tommaso d’Aquino (1225-1274) – la liceità giuridica del tirannicidio. Aveva stabilito San Tommaso che colui che allo scopo di liberare la patria uccide un tiranno fa una cosa giusta. Tanto più deve essere lodato e premiato se il tiranno ha usurpato il potere con la forza e contro il volere dei sudditi. Anche quando i sudditi siano stati costretti a dare il loro consenso. Quel consenso va considerato estorto e non inficia il diritto-dovere del tirannicidio. Bartolo distingue varie categorie di tirannide (usurpazione del potere o suo abuso) e trova la strada per collegare l’uccisione del tiranno alla pena di morte prevista contro chi attenta all’autorità costituita. Così si schiude nella dottrina cattolica la via che porterà a spalancare la porta al «diritto di resistenza attiva» nei confronti di chi si è illegittimamente appropriato del potere o ne ha abusato.
Un «precipitato» di questi principi si manifesterà fino alla seconda metà del Novecento. Laddove Paolo VI nella Populorum progressio (1967) condannerà sì l’insurrezione armata, legittimando però una vistosa eccezione: quella «di una tirannide evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali di una persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del Paese». Contro quel tiranno è giusto insorgere. Ma la messa a fuoco di quella soglia, osserva Cassi, «si è rivelata, nel migliore dei casi, drammaticamente difficile». E, nel peggiore, «cinicamente suscettibile di scelte discrezionali e arbitrarie»: crimini contro l’umanità e violazioni dei diritti umani sono stati perpetrati da molti Paesi, senza che la comunità internazionale, «o sue porzioni» come quella cristiana, si siano mosse per abbattere i despoti. Anzi, non si contano i casi in cui, al cospetto di «tirannidi evidenti» e «gravi attentati ai diritti fondamentali» delle persone, la comunità internazionale e la stessa Chiesa hanno fatto finta di non vedere. Quando è lecito, anzi doveroso uccidere il tiranno? Alla fine, si torna sempre a contraddizioni del tipo di quelle messe in luce dallo stesso Cassi in merito all’uccisione di Cesare.