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 2022  febbraio 09 Mercoledì calendario

Intervista a Nicola Savino


Sembra l’amico che tutti vorrebbero avere. Quello simpatico, sorridente e gentile, divertente ma mai gradasso. «Ecco, mi viene in mente l’espressione di mia moglie quando incontro qualcuno per strada che mi dice cose come queste – commenta Nicola Savino —. Di solito mentre la gente parla c’è lei che fa: “Uhhhhh...”». In realtà, spiega: «Non sono una persona con cui è facile convivere. Sono piuttosto permaloso e ansioso... dormo anche poco e male, di base in due tempi: solitamente qualche ora, poi mi sveglio, magari leggo il giornale in piena notte e alla fine mi riaddormento». Il pieno prende forma grazie al vuoto e, nel caso di Savino, il vuoto si riassume in una parola: papà. «La sua assenza è il mio problema».
Come mai parla di assenza?
«Lui lavorava spesso all’estero, in Medio Oriente, per l’Eni. Quando tornava dai suoi lunghi viaggi mi portava delle radio, che io poi smontavo, forse nella speranza di trovarci dentro lui. Da quando sono nato ai miei 14 anni non c’è stato praticamente mai».
E poi?
«Ha avuto una depressione fortissima. Si è ammalato proprio quando sono nato io, ma poi è peggiorata. Non è semplice per un figlio crescere con un genitore gravemente depresso. Eppure posso dire con certezza che nonostante la malattia non ha mai fatto mancare a me e alle mie sorelle l’amore».
Quando ha realizzato che suo padre stava così male?
«Da piccolo non avevo gli strumenti per capire cosa fosse quello che allora chiamavano “l’esaurimento nervoso”. Tu vuoi che tuo padre giochi con te a pallone, ti porti a vedere la partita... vuoi insomma che sia un padre, ma questo non era possibile. Lo facevano i miei zii, forse provando anche un pizzico di compassione per quel bambino piuttosto solo, visto che le mie sorelle erano più grandi. Crescendo, mi è capitato poi di vedere mio papà in stato confusionale... momenti rari, per fortuna, ma sono successi. Cerco di non pensarci sempre perché mi do fastidio da solo e l’analisi prova a lenire il problema, ma quando ti manca qualcosa di così importante da piccolo, superarlo non è semplice».
Ci è riuscito?
«Negli ultimi 15 anni della sua vita abbiamo recuperato. Con i primi guadagni di “Colorado” (la trasmissione che conduceva su Italia 1, ndr) gli ho comprato una piccola casetta vicino alla mia: l’ho seguito, accudito, stava bene. Per tutto quel tempo siamo stati molto vicini. Quattro mesi prima che morisse, nel 2014, c’è stata anche questa scena madre, da film, in cui mi ha abbracciato e mi ha detto: “Non sono stato un buon padre”. Gli ho risposto che era stato fantastico e l’ho abbracciato a mia volta... ed è davvero stato così. Lui amava me, io amavo lui. Lui ha avuto dei problemi».
E sua mamma?
«Era mamma ed era papà. Lavorava anche lei però doveva badare a tre figli. Adesso capisco tutta la fatica e ho grande stima e ammirazione per i miei. Mi hanno trasmesso una cultura profonda per il lavoro, un grande rispetto. Ancora oggi mi ci rivedo e mi piace anche».
Lei è mancata quando la sua carriera televisiva stava esplodendo.
«È successo poco prima del mio debutto a “Quelli che il calcio”, che era sicuramente la cosa professionalmente più importante che avessi fatto fino a quel momento. L’ho vissuta con addosso il lutto più tragico ma non ne parlavo con nessuno allora. Ero dentro un tunnel e non lo sapevo. Per tutti i primi mesi ero distrutto, come se mi avessero tolto la pelle dal corpo, ma dovevo spingere, andare avanti. I lutti sono difficilissimi da mettere nei cassetti: sono come un cerchio di fuoco attraverso cui tu passi. In quel periodo mi fu molto di conforto anche la religione, che adesso pratico meno. Ero in mezzo al mare e mi sono aggrappato anche a quella cosa».
Cultura del lavoro. Non a caso, lei ha sempre lavorato: in ruoli differenti, su media differenti...
«Ho fatto tutta la filiera, sì. Un passo alla volta, forse con un po’ troppa umiltà. E torno alla mia famiglia: eravamo borghesi, si può dire, eppure non vivevamo a Milano ma a San Donato. Avevamo una casa al mare con un giardinetto, ma piccolo e non a Forte dei Marmi ma a Lido di Camaiore. Insomma, il titolo di tutto era: “Ma non sarà troppo?”. Il che ti consegna un senso di colpa perenne... lo stesso per cui penso, a volte, di aver buttato via molto tempo, lavorativamente parlando, tra i miei venti e i trent’anni. Ma il risultato di cinque-sei anni di analista è che ora, almeno, vivo in centro».
Se dovesse invece descrivere i suoi vent’anni?
«Sono stati bellissimi. Ripenso a un gruppo di amici, che era quello formato da Claudio Cecchetto, tutti impegnati a far bene un mestiere, ancora una volta. La popolarità era quasi un effetto collaterale. Per tutti le star erano quelle sui giornali, non noi. Io poi, avevo il cartellino, facevo la regia. Avevo scritto il mio curriculum per Radio Deejay con la macchina da scrivere. In quegli anni poi, per la prima volta mi relazionavo seriamente e a lungo con delle figure maschili».
Come è stato?
«La lente era un po’ distorta. Sentivo le persone più grandi fare racconti diciamo da bar sulle loro serate e pensavo che il rapporto con le ragazze fosse quello... ci ho messo un po’ a capire che non era così. Ho avuto però la grande fortuna di incontrare Fiorello in quel periodo: eravamo gli ultimi arrivati, anche se lui a differenza mia andava in onda. Era in grado di fare amicizia con chiunque. Una volta esploso il suo successo lo accompagnavo quando faceva delle serate: ho visto cose che voi umani... ecco, è stato molto divertente e formativo. Ma è stato anche avere vent’anni, tanto che quando vedo oggi qualcuno della mia età che fa cose scomposte, dettate da Bacco, Tabacco e Venere, mi viene da sorridere e anche un po’ di compassione».
Quando ha realizzato che la sua voce era adatta per andare in onda?
«Nessuno me lo ha mai detto, in realtà. Mi sono sempre dilettato con le imitazioni. Per via di quel pudore che ho sempre avuto nel dire “sono bravo”, le imitazioni erano per me delle maschere con cui riuscivo a dire delle cose che altrimenti non sarebbero uscite. Ripenso a quando ho imitato Berlusconi, subito dopo l’annuncio della sua discesa in campo: non lo faceva nessuno. Vedevo la gente piangere dal ridere e non me ne capacitavo».
Poi è arrivato Linus...
«Casualmente. Ho l’ossessione per la didascalia, per la spiegazione di cose che altri danno per scontate, così, mentre lavoravo in redazione, come autore, ero interpellato da lui come “uomo della strada”. Tutto è iniziato in questo modo. La nostra è un’alchimia che ti capita una volta ogni cento anni. Penso che il segreto sia stato crescere assieme. Linus è cresciuto tantissimo, prima era molto più superficiale di adesso. Ora è veramente profondo e sensibile. Poi, a differenza mia, che leggo quasi solo giornali, lui legge molti libri. Io con i libri mi annoio, confesso. Ma ci arriverò. Intanto a casa tiene alta la bandiera mia moglie, che ne divora uno a settimana».
Cosa le è piaciuto di lei?
«La leggerezza d’animo. Poi la curiosità, il gusto, l’amore per i viaggi anche da ferma, magari ordinando del cibo etnico. Stiamo insieme da ventidue anni, sono tanti. E come dicevo, convivere con me non è una passeggiata. Avevo già un matrimonio alle spalle, dai 24 ai trent’anni. Quando è arrivata lei mi sono detto: basta».
Avete una figlia. Come è stato diventare padre?
«Esistono varie fasi. La prima è quella in cui vuoi fare finta che non sia cambiato nulla. Noi andavamo sempre a bere il caffè in un certo bar e ricordo che quando siamo tornati dall’ospedale, la prima cosa che abbiamo fatto, ancora prima di andare a casa, è stato fermarci lì con il trasportino. Che va bene, per carità, se non fosse che poi ti accorgi che c’è poco da fare, le cose cambiano. Sarebbe stato curioso e inedito confrontarmi con un figlio maschio, visto che sono sempre stato in un gineceo, ma va benissimo così».
Rivede i suoi genitori nel suo modo di essere genitore?
«Accidenti, anche se pensi di esserti emancipato li devo tenere distanti con i secchi di olio bollente. L’adolescenza poi è un’esperienza molto intensa. Ti trovi di fronte a un essere umano che davvero perde la pelle e questo è doloroso. Inoltre, non ci sono istruzioni per l’uso. L’unica cosa da fare, penso, sia stare vicino a questi ragazzi. Che vuol dire anche chiedere: “Come va?” e sentirsi rispondere: “Vaff...”. È molto difficile. La sensazione è che i figli vogliano una sponda, vogliano sapere fino a dove possono andare. Dopodiché io vedo mia figlia straordinaria, speciale. Ha una sensibilità fuori dal comune, anche se un suo tormentone è: “Papi, non fai ridere”».
Ha qualche sogno professionale per il suo futuro?
«Intanto continuare con la radio finché Linus non avrà voglia di smettere. Perché, sia chiaro, io non smetterò mai. Tra noi c’è una specie di guerra di nervi alla base della domanda: quando finirà? Ecco, io non voglio essere quello che molla per primo».
E oltre alla radio?
«Chiedo spessissimo informazioni sul teatro, è una cosa che mi incuriosisce tanto. Non penso necessariamente al recital del personaggio televisivo, ma parlo proprio del teatro classico. Ecco, mi piacerebbe fare quella roba lì... poi non so bene se sia per la solita questione del pudore, se insomma non ho il coraggio di dirmi che vorrei fare il Nicola Savino show. Di certo con un Amleto ci sarebbe già pronto un buon copione, l’ha scritto uno bravo».