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 2022  febbraio 09 Mercoledì calendario

Il punto sulla riforma Cartabia

Giovanni Bianconi

ROMA Il tentativo di fare in fretta si scontra con la necessità di modificare le proposte iniziali, per coniugare le diverse richieste ed esigenze delle parti in causa: la politica da un lato e la magistratura dall’altro, con posizioni differenti all’interno dei due fronti. Un contesto complicato, ma non c’è tempo da perdere. Le trattative per la riforma della giustizia, e in particolare dell’organo di autogoverno delle toghe, procedono a tappe forzate e la Guardasigilli Marta Cartabia lancia una nuova idea per provare a sciogliere il nodo più complicato: il sistema elettorale per il Consiglio superiore della magistratura (le prossime consultazioni sono previste in estate).
L’ultimo rilancio illustrato ieri ai partiti per portarlo venerdì in Consiglio dei ministri è un metodo maggioritario binominale, come ipotizzato inizialmente, ma con una quota proporzionale per assicurare la contendibilità dei seggi e il pluralismo, lasciando spazio a candidature slegate dalle correnti o di gruppi minoritari. Nelle consultazioni con i partiti di maggioranza avvenute prima di Natale, la ministra aveva suggerito, come correttivo del maggioritario binominale, una quota di 4 o 6 seggi (a seconda che il numero dei togati resti a 16 oppure salga a 20, come sembra più probabile) da assegnare ai migliori terzi; ora, dopo ulteriori consultazioni e il vertice che c’è stato l’altro ieri a Palazzo Chigi con il premier Draghi e il sottosegretario Roberto Garofoli, Cartabia ha pensato di riservare quello spicchio di rappresentanza a candidati eletti con il sistema proporzionale puro. Per andare incontro alle istanze degli stessi giudici che, nel referendum consultivo indetto dall’Associazione magistrati, si sono espressi abbastanza chiaramente contro il maggioritario.
Con questo escamotage la ministra spera di placare le riserve delle toghe, ma il rischio è che la soluzione apra un nuovo conflitto con e tra i partiti che sostengono il governo. Nella maggioranza c’è infatti la componente di centrodestra (Lega e Forza Italia) che, per eliminare il ruolo delle correnti, insiste a chiedere il sorteggio «temperato»: vale a dire l’estrazione di una rosa di candidati all’interno dei quali pubblici ministeri e giudici possano eleggere i venti consiglieri togati. Una strada che però la ministra, in linea con la commissione guidata dal professor Massimo Luciani che lo scorso anno su suo incarico ha presentato un ventaglio di possibili riforme, considera in contrasto con la Costituzione. L’articolo 104 stabilisce infatti che i consiglieri togati «sono eletti da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie», e non prevede filtri né livelli minimi di carriera per candidarsi.
L’altro punto controverso è il rientro nei ranghi dei magistrati eletti in Parlamento o negli enti locali, al termine del mandato politico. Una questione che sta molto a cuore ai Cinque Stelle e della quale s’era già occupato lo stesso Csm cinque anni fa, proponendo al Parlamento di fermare le cosiddette «porte girevoli» con una legge. Ma non è successo nulla. Cartabia propone intanto di impedire il doppio incarico: attualmente è possibile svolgere il ruolo di amministratore o consigliere di enti locali in un luogo ed esercitare le funzioni giudiziarie in un altro, cosa che non dovrà più accadere. E non sarà possibile candidarsi nei centri in cui si è prestato servizio negli ultimi tre anni.
Per quanto riguarda il ritorno al lavoro, invece, la riforma dovrebbe prevedere che terminate le «cariche elettive» i magistrati non possano assumere funzioni giurisdizionali, le stesse di prima o anche diverse. Questo significa che potrebbero essere inseriti in uffici come il Massimario della Cassazione, in ruoli amministrativi presso enti statali o soluzioni simili. Senza più indossare la toga dei pm o dei giudici, affinché non risulti incrinata l’immagine di imparzialità che quelle funzioni richiedono.

Ma se questa soluzione fosse limitata agli «eletti», resterebbero fuori gli incarichi extragiudiziari a chiamata diretta, nei ministeri, negli enti locali o altre istituzioni che abbiano anche valenza politica. E non è detto che una simile differenza di trattamento sia accettata dai partiti. Innanzitutto dai grillini, che di questa questione hanno fatto una sorta di bandiera. E poi perché il numero di magistrati attualmente fuori ruolo per questo tipo di incarichi è maggiore di quelli scesi in politica dopo il vaglio elettorale.