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 2022  febbraio 09 Mercoledì calendario

Tra gli studenti del dopo Covid

«Rivoluzioniamo la normalità» è uno slogan involontario ma efficace. Spunta alla fine, quando stiamo per congedarci. La parola chiave – normalità – la pronunciano, e non me lo aspettavo, con un certo fastidio. «Nessuna intenzione di riappropriarcene, se dev’essere la vostra». Di chi? Vostra, degli adulti. Francesca cita Pino Daniele e trova un titolo buono per la prima pagina alternativa di Repubblica che chiedo di allestire: «Nella tua normalità je so’ pazzo». Ma come? E tutta la nostalgia del tempo di prima, la voglia di tornare indietro? Dopo due ore passate con questi diciottenni – gente nata che il ’900 era finito già da un po’ – ho l’impressione che la freccia puntata indietro non li interessi. Né l’equazione uscire dalla pandemia uguale tornare dov’eravamo. Di più: non riescono a concepirla. Ma, d’altra parte, perché a diciott’anni dovresti tornare indietro? Tornare dove?
Daniele, che non è ancora maggiorenne e perciò si aggrega con ironia al gruppo dei «non fotografabili», spiega che non ha nessuna intenzione di sottovalutare il peso di questi due anni di pandemia sulla sua vita. E nemmeno intende accettare che lo sottovalutino gli altri: «Ognuno di noi ha combattuto con gli strumenti che aveva a disposizione. Ma ha combattuto». Se l’esame di maturità fosse alleggerito, come molti studenti hanno auspicato e continuano a sperare, dice, «non lo sentirei “svalutato”, né mi sentirei inferiore agli occhi degli altri. Ho la consapevolezza di avere affrontato un’esperienza non comune, e di averla affrontata a questa età». Lucia trova assurdo sentire parlare dei contagi che calano come una questione definitiva, come se bastasse questo dato a ripristinare in un lampo il prima, come se ci fosse una specie di pulsante on/off impazzito. E invece no, chi l’ha detto che bisogna tornare lì, e che questa non sia l’occasione per ripensare tutto? Tutto. Anche l’esame, quindi. «Sì, certo, anche l’esame». Ma a Francesco, che è il rappresentante degli studenti di questo liceo, il Pimentel Fonseca, e contesta un Esame di Stato che non tiene conto di differenze e disuguaglianze «tra nord e sud, tra scuola e scuola», Andrea risponde che sarebbe sbagliato «adattare un esame alle specifiche diseguaglianze». E che il punto è agire perché quelle diseguaglianze siano riassorbite. Frase maestosamente politica. Vasto programma! Si accende il dibattito. La posta in gioco non è da poco. Come valutare uno studente «senza schemi da azienda». Come fare in modo che emerga, oltre a ciò che sai, anche ciò che sei. Qual è il fine della valutazione? Lucia alza la mano, si scusa, dice: «So che le domande devi farle tu a noi, ma pensi che la prova scritta sia una prova necessaria?». Sì, rispondo, direi di sì; non starò qui a difendere un compito di matematica o una versione di latino, tanto più che il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione ha dato un parere negativo sulla seconda prova all’esame 2022. Ma la scrittura la difendo, non penso se ne possa fare a meno. Posso chiedervi però – rilancio – perché vi fa paura? Due minuti di silenzio. «Io preferisco parlare», risponde Dora. «Quando scrivo mi concentro troppo sulla forma, ho paura di scivolare sulle regole grammaticali, perdo di vista il contenuto, e consegno il foglio sempre con la sensazione di avere detto pochissimo rispetto a quanto avrei voluto dire». Sulla grammatica si fa «tantissimi problemi» anche Daniele: «Mentre se parli gli errori perdono importanza, li cancelli parlando. E non che mi venga facile nemmeno parlare, anche se credo di essere migliorato». Il derby Scritto-Parlato non lo vince nessuno; forse un po’ lo vince Franco, quando chiarisce per tutti – con un’esattezza ammirevole – il fatto che per scrivere devi prima fare ordine nella testa. E forse la vera difficoltà è quella. È quello a fare paura. «Oltre al fatto che ciò che scrivi non puoi cambiarlo». A Giuliana non dispiace il tempo più disteso della scrittura, anche se le ore concesse a scuola sembrano sempre troppo strette: «Mettere insieme le informazioni, i dati che hai a disposizione, e fare lo sforzo di rielaborarli dà una consapevolezza diversa». E sì, è come fare un passo indietro rispetto alle cose, guardarle da una giusta distanza. «No, è soggettivo», ribatte qualcuno. Ma si trovano tutti più o meno d’accordo quando Francesco fa notare che questa non è un’epoca che ti mette sul binario giusto per scrivere, ti mette semmai su altri binari, dove si corre veloci e di parole ne bastano poche, pochissime. «Entrare nel campo della scrittura vuol dire entrare in un territorio umano, interiore, intimo. La società sembra volerti spingere da un’altra parte». Che cosa gli obietti? Che a maggior ragione la scuola non può perdere di vista la scrittura. Fanno sì con gli occhi da sopra la mascherina, sembrano tutti intimiditi o timidissimi. Poi quando la abbassano prendendo la parola scopri che hanno parecchio da dire, con frasi che di tanto in tanto scintillano, come la luce fuori, già primaverile: «La correlazione tra quello che sono e quello che so» (copyright Maria Francesca, che azzarda perfino un cauto elogio della Dad: «Qualcosa comunque ci ha insegnato, anche a usare in modo diverso certi strumenti»). Li ho incontrati che uscivano da una mostra su Dante degli street artist Cyop&Kaf nel complesso conventuale di San Domenico Maggiore. La Sala del Capitolo, in cui li ho praticamente bloccati, è diventata un piccolo parlamento e insieme una redazione improvvisata. Li sfido a fare una loro prima pagina alternativa. «Terza dose o seconda prova?», scrive una ragazza, in rosso, con una impeccabile grafia da amanuense. «Normalità per chi?», scrive un’altra, a caratteri cubitali. Belli e insoliti i titoli di giornale con dentro una domanda. L’ultima la faccio io: come pensate che andrà? Alzano le spalle, e sorridono. Alessia dice che la preoccupa quando il pensiero si blocca «di fronte a ciò che non capisco». Meglio parlare o scrivere? «A me, se devo essere sincera, viene l’ansia per tutto».