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 2022  febbraio 09 Mercoledì calendario

A 120 vent’anni dalla nasciata di Carlo Levi

Nella multiforme opera di Carlo Levi che spazia dalla pittura alla poesia, dalla saggistica alla militanza politica, c’è una coerenza profonda e mai smentita, fatta tanto di pensiero quanto di passione. Un filo logico ed emotivo che tutto percorre a partire dal suo primo libro, scritto a La Baule, in Francia, nel 1939. Paura della Libertà, pubblicato poi nel 1946, è un saggio filosofico e visionario, fitto di brutti presagi: «Se il passato era morto, il presente incerto e terribile, il futuro misterioso, si sentiva il bisogno di fare il punto; di fermarsi a considerare le ragioni di quella cruenta rivoluzione che incominciava», scrive Levi nella prefazione, a sette anni di distanza. Decenni dopo, nel 1973, anche il presente gli è incerto: il distacco della retina lo costringe a mesi di quasi cieca immobilità, e così si costruisce una griglia di fili sulla pagina, che guida la penna riga per riga lungo il suo ultimo libro, Quaderno a cancelli. E qui, in queste pagine straordinarie, dopo e accanto la paura viene la coscienza di libertà. Nella vita, nella pittura, in quel suo scrivere con trasporto e pacatezza, mai senza un velo di sottile ironia, persino nelle lettere che spedisce dal carcere – che incontrerà tre volte dal marzo del 1934 al giugno del 1943, sotto il fascismo.
Carlo Levi è stato uno straordinario intellettuale anche se questa parola gli piaceva assai poco. È stato prima ancora un inguaribile appassionato di vita, curioso di tutto, sempre disposto a scoprire – nei colori, nelle parole, nei corpi. A centoeventi anni dalla sua nascita in una Torino tanto sommessa quanto cosmopolita, tornare a Carlo Levi significa far propria una figura centrale del Novecento, capace di incarnare il secolo breve e di leggerlo in tutta la sua complessità. E la libertà è davvero la sua cifra: libertà come ricerca, impulso di lotta, valore primario. Ma anche, e forse prima ancora, libertà di uscire sempre dagli schemi, come lui ha fatto per tutta la vita. Dipingendo, scrivendo e anche curando: a quindici anni, dopo il liceo Alfieri, si iscrive alla facoltà di Medicina. Non eserciterà mai se non clandestinamente durante l’esilio lucano, su pressante richiesta dei contadini, ma la conoscenza del corpo umano e delle sue debolezze resta in filigrana in tutta la sua opera.
Carlo Levi va riscoperto non perché sia, come oggi spesso fa comodo, «attuale». Anzi, il suo eclettismo mai snob ma sempre mosso da una curiosità fiduciosa (anche nei momenti più bui della storia) suona quasi marziano in questo presente che sembra sempre aver bisogno di incanalare tutto entro schemi rigidi.
E certamente, accanto all’istanza della libertà – storica e personale – c’è in lui una percezione del fascismo come insidia costante, prima e dopo il Ventennio. La profonda amicizia con Gobetti è alla radice di tutta la sua militanza politica, dalla Rivoluzione Liberale sino a L’Orologio, il romanzo che narra la disillusione del 1946, quando vede infrangersi l’auspicato ricambio della classe dirigente contro l’inguaribile immobilismo di un paese come l’Italia, dove, come scrive altrove, «L’antico, se era vivo, non muore nel presente: nulla si rinnega e si cancella, per vivere... Questa presenza storica è una virtù, che tuttavia costa cara, poiché tiene il nostro paese lontano dalla potenza, dalla uniforme efficienza delle grandi nazioni moderne, fondate su una rottura, una negazione di tutta la storia o di una sua parte».
L’antifascismo era e resta la sua cifra di militanza e una chiave d’interpretazione del presente ancora nel 1952 quando dedica uno scritto illuminante a La serpe in seno – un saggio sul neofascismo (pubblicato postumo in Belfagor): questo sì perfetto specchio del nostro presente, perché tratteggia, «quella seconda vita astratta dei fascisti, di quel limbo di sentimenti senza corpo e di risentimenti senza ragione, di eroismo senza pericoli, di ripetizione meccanica di gesti e intenzioni, che fanno del neofascismo un fenomeno strano, grottesco e psicologicamente preoccupante».
C’è tanto altro ancora, in Carlo Levi: opere letterarie di largo respiro che affiancano il Cristo e costantemente allineate all’idea di raccontare il mondo calandosi nel territorio, nella realtà del presente e del passato. Da La doppia notte dei tigli (diario di un viaggio in Germania dopo la guerra e prima del Muro) a Tutto il miele è finito (un’esplorazione della Sardegna) a Le parole sono pietre (la Sicilia atavica e in lotta per i propri diritti). E le poesie, scherzose e meditative. E il corpo immenso delle lettere al suo “Puck” – Linuccia Saba («vorrei abbracciarti ma forse sei un mito», gli scrive lei un giorno...). Persino nella sua vita sentimentale Carlo Levi esce dagli schemi. E non tanto perché non si sposa mai ma in compenso ama molte e molto, piuttosto per la strabiliante originalità dei suoi sentimenti e del modo in cui li esprime lungo la sua ininterrotta vita amorosa, dalla misteriosa Vitia Gourecitch (la belle rousse) a Paola Levi, da Anna Maria Ichino a Maria Marchesini e altre, con o senza nome. Anche il suo evanescente narcisismo, che non poca parte ha nei rapporti con le donne, è sempre venato di un sarcasmo gioioso e consapevole.
Proprio in virtù della sua capacità di sfuggire ai dogmi degli schemi artistici e politici, Carlo Levi va visto sempre alla luce di tutta la sua opera, mai incastonato in un genere: non è pittore, non è scrittore, non è attivista politico e poi senatore (sempre naturalmente indipendente, del resto). È sempre tutto questo insieme e tanto altro insieme, nella vita pubblica e intima.
E se qualche giorno fa su Tuttolibri Claudia Durastanti gli dedicava in chiusura di uno splendido ritratto parole di scuse «per non avergli ostinatamente creduto», anche la Torino dove è nato e sempre tornato, «straordinaria città fantasma, così esotica, così differente da ogni altra al mondo... patria della solitudine, di una solitudine ordinata, familiare, piena di sentimenti e di nebbie mattutine» gli deve tanto rimpianto quanto tardiva gratitudine, per essere stato al mondo. —