Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  febbraio 09 Mercoledì calendario

Un ricordo di Franco Battiato

Potremmo pensare il suo percorso come quello di un’aquila, con la capacità di muoversi verso l’alto, dalla terra al cielo, dal mondo materiale al mondo spirituale, dalla morte alla vita”. Carlo Guaitoli, pianista e direttore d’orchestra legato a Franco Battiato da un lungo sodalizio, così ricorda la persona sterminata e strana che è stata Battiato, che sulla Terra manca da maggio, ma persiste.
“Credeva nella reincarnazione. Si era orientato sul buddismo tibetano perché ne è l’elemento trainante. Era convinto che la reincarnazione fosse anche nei Vangeli e che molti sacerdoti lo sapessero”.
La prima collaborazione tra loro risale al 1993. “Lui stava lavorando a Come un cammello in una grondaia con l’orchestra dei Virtuosi Italiani. È nata una sintonia all’istante. Ho avuto un innamoramento al Regio di Parma per L’Ombra della luce: andai a casa e la ascoltai ripetutamente per tutta la notte”.
La Messa arcaica è il frutto di quell’incontro. “Un lavoro minuzioso. Era così contento che mi chiese di accompagnarlo nei concerti”. Guaitoli lo ha accompagnato anche in India, al Festival Internazionale di Musica Sacra, dove Battiato incontrò il Dalai Lama. “A Bangalore, in mezzo alla musica e alla spiritualità da tutto il mondo, i mezzi erano limitati, il mixer prese fuoco, il pianoforte era crepato. Fu una delle esperienze più intense vissute con lui”.
Siccome tutto è incastrato, pur nell’impermanenza e nell’essere noi solo “di passaggio”, al Teatro Greco Romano di Catania, nel 2017, eseguirono Messa arcaica. “Non sapevo che sarebbe stato l’ultimo concerto. Qualche mese dopo ci ho riflettuto: non la suonavamo da tantissimi anni, è stata la chiusura di un cerchio”.
Battiato era un’anima delicata e come estranea a questo mondo; eppure ha saputo coglierne gli elementi, le vibrazioni sottili, le relazioni invisibili. C’è il rischio di intendere le sue opere come un insieme di simboli e metafore mistiche, senza una loro autonomia artistica?
“L’universo-Battiato è talmente vasto e inclassificabile che è impossibile. Franco ha scritto musica leggera alla maniera di un compositore classico, e musica classica alla maniera di un compositore leggero. Si è sempre approcciato alle cose in maniera del tutto originale, spiazzante. Qualsiasi cosa un altro artista avrebbe deciso in un dato momento, non era quello che sceglieva lui. Aveva una personalità talmente forte che non ci pensava più di tanto, sentiva di doverlo fare”.
Sebbene riproducibili all’infinito, le sue opere mantengono un’aura: restano uguali negli anni. “Mi diceva che si sentiva quasi più arrangiatore che compositore. È il motivo per cui tante canzoni sono rimaste così. Non c’era un’altra strada. Povera Patria, L’ombra della luce, Le sacre sinfonie del tempo sono state scritte come un Lied di Schubert: il piano è quello, gli archi sono quelli”.
Disse: “Sono commerciabile ma non consumabile”. “L’ironia lo faceva essere distaccato da tutto, dal grande successo, dai soldi. Era grato al suo pubblico, sapeva che il successo gli permetteva di fare cose che altrimenti non avrebbe potuto fare. Mi colpiva l’equivalenza tra la sua statura artistica e quella umana. Fare arte era un mezzo, ciò a cui teneva era il suo percorso come uomo e come essere spirituale”.
“Il cantante è primigenio”, disse; “appartiene al mito della musica”. Non sapeva da dove gli venissero musiche e parole; in ciò era più simile a un profeta che a un filosofo. “Il momento dell’ispirazione lo preparava. Poteva dare l’impressione di essere pigro e metterci mesi prima di decidere, ma quando decideva diventava uno stacanovista. Una volta doveva scrivere un brano per una tournée. Si avvicinava il giorno, io cominciai le prove coi musicisti e lui era ancora a casa. Due giorni prima lo chiamai: ‘Franco, l’hai scritto?”. E lui: ‘No, ho guardato il torneo di Wimbledon’. L’ultimo giorno si svegliò, e scrisse un capolavoro: Aurora”.
A un certo punto smise di mangiare carne. “Sono io la causa. Al ristorante, a Macerata, portarono delle olive, io non mi ero reso conto che c’era carne dentro. Lui mi chiese se c’era e risposi di no. Mangiò questa oliva e poi stette male per due giorni, me lo rinfacciò sempre”. Diceva di aver sentito milioni di cellule del suo corpo ribellarsi mentre la ingoiava. “Sì (ride, ndr). Negli anni è andato per sottrazione, ha tolto il fumo, il vino, il caffè”.
Anche nella musica, prima cumulava codici, suoni, intarsi, citazioni, madrigali, musiche sacre: tutto per – diceva – “scongiurare la spudoratezza del messaggio”. Poi mise in atto una progressiva rarefazione e disidratazione. Forse anche affidarsi a Sgalambro è stata una specie di cessione di identità, di abbandono dell’io, una diserzione artistica, un avvicinamento al silenzio.
“È così. Era sempre per tagliare, per fare le cose più brevi e più semplici. A noi veniva l’idea di aggiungere qualcosa, e lui ci stoppava. Ripeteva: ‘Il meglio è nemico del bene’”.
Chiedo se ha mai sofferto di depressione. “All’inizio del suo successo andò da uno psicologo che gli prescrisse delle cose. Uscì con l’idea che questo non aveva capito niente e al primo cestino buttò la ricetta. Cominciò a rivolgersi altrove per risolvere le cose dentro sé stesso, alla meditazione, allo studio di Gurdjieff”.
C’era qualcosa che lo faceva arrabbiare. “I soprusi, le persone non sensibili, la mancanza di rispetto. Quando qualcuno si prendeva la libertà di modificare le cose senza chiedere il suo consenso. L’approssimazione. Una volta a un concerto si arrabbiò molto con me. Ero sceso dal palco perché non suonavo per due brani. A un certo punto lui cambiò la scaletta, io non me ne accorsi, e dovevo cominciare il brano, ma non ero sul palco. Pensò che il mio fosse stato un atteggiamento di superficialità, avevo sbagliato perché mi ero allontanato. Non successe mai più”.
Perché un uomo così denso, abitato da tante energie sensuali, intellettuali e spirituali, capace di essere uno e molti, Franco Battiato e Süphan Barzani, come si firmava quando dipingeva, scelse di stare solo? Non era eroticamente proteso verso l’altro? “No, è che concepiva il rapporto tra due persone che si amano come qualcosa di talmente elevato, una combinazione rarissima che avviene una volta su un milione, che era impossibile da raggiungere. Non era disponibile al compromesso”.
Amava gli animali. “Curava e dava da mangiare ai cani randagi nella sua zona. Non uccideva neanche una zanzara”. E i bambini. “Veniva catturato dai loro occhi, ci vedeva un mondo dentro. Guardava un bimbo appena nato come un’entità che viene da lontano”.
Canta: “Anch’io a guardarmi bene vivo da millenni”; per ciò persiste. “Sì. È volato via, e ha ricominciato a essere presente”.