il Giornale, 9 febbraio 2022
La truffa dell’arte che esclude temi religiosi
È uno strano libro, Lo strano posto della religione nell’arte contemporanea di James Elkins (Johan & Levi). Perché l’autore, critico d’arte e docente alla School of the Art Institute di Chicago, sulle prime sembra voglia aprire un canale di comunicazione fra due mondi lontanissimi e poi se ne esce con frasi del genere: «Credo che tutti quelli che evitano di parlare di religione e arte contemporanea assieme siano assolutamente dalla parte della ragione». Smentendo così la premessa del libro, il titolo del libro, il libro stesso. Più avanti denuncia la penosa situazione degli studenti cristiani nelle scuole d’arte, costretti a nascondere la loro fede per non incappare nel feroce ateismo degli insegnanti, e subito dopo scrive: «La maggior parte dell’arte religiosa è semplicemente arte scadente. Praticamente tutta l’arte religiosa destinata agli ambienti domestici o alle chiese è mediocre e superata».
Forse allora il titolo giusto del libro, sebbene ancora più lungo, sarebbe stato: Lo strano pregiudizio antireligioso della critica d’arte contemporanea. Perché il professor Elkins non è paternalista solo coi suoi poveri studenti (cinque capitoli del libro sono critiche al lavoro di cinque di loro), si permette di esserlo anche con artisti otto-novecenteschi piuttosto riconosciuti e però colpevoli di avere realizzato opere devote. Il Golgota di Jean-Léon Gérôme è un quadro incredibile ma. Le pie donne al sepolcro di Maurice Denis sono affascinanti ma. I dipinti murali di Jean Cocteau nella chiesa di Villefranche-sur-Mer sono apprezzati ma. Mentre Emil Nolde ha realizzato la sua Ultima cena «in una specie di trance estatica». Una specie. Non una trance estatica senza connotazioni negative, tipo quelle di Marina Abramovic, sacerdotessa dell’arte ufficiale che consiglia ai giovani artisti di aprire e chiudere la stessa porta per tre ore di seguito... Non una trance estatica approvata ma «una specie di trance estatica», ossia, fra le tante trance estatiche possibili, una sottospecie di trance estatica. Insomma, agli occhi dei soloni dell’arte contemporanea i pittori che credono in Dio risultano sottospecie, figli di un dio minore se non addirittura casi umani. Per forza «le discussioni sull’arte e quelle sulla religione sono diventate del tutto estranee le une alle altre»: se una parte non riconosce pari dignità all’altra parte, pari diritto all’esistenza, cosa vuoi mai discutere...
È proprio uno strano libro, Lo strano posto della religione nell’arte contemporanea di James Elkins, anche nel senso etimologico del termine: «diverso dal solito» (è la prima accezione sul vocabolario Treccani). Perché mai prima d’ora, a mia scienza, un critico militante nel campo dell’arte di sistema (l’arte da Biennale, per intenderci) si era esposto fino a esplicitare il pregiudizio antireligioso che domina nel proprio ambiente. Elkins ha il merito di dire la verità. A pagina 63 racconta di aver fatto parte della giuria di una mostra-concorso riservata a opere di tema religioso. Si badi bene: religioso. Un’opera di Andres Serrano, artista nel cui curriculum c’è Piss Christ (non credo serva la traduzione), venne accolta senza battere ciglio. Ovviamente nessun problema nemmeno per la foto di Joel-Peter Witkin che mostrava una Venere col pisello, una dea trans calpestante un Cristo morto. Infine giunsero ai giurati le immagini di quadri raffiguranti «foglie grandi e carnose come quella di Georgia O’Keeffe. I dipinti ci piacquero subito». Allora nessun problema, penserà il lettore ignaro dei veri criteri della critica d’arte. E invece un problema c’era ed esplose quando si venne a sapere che il pittore era un monaco di clausura. Inaudito! Scandalo! «Le opere venne scartate perché troppo sincere». Dunque per realizzare arte religiosa è necessario essere falsi? Non precisamente. È sempre Elkins a svelare il meccanismo: «Il mondo dell’arte accetta arte religiosa fatta da persone che odiano la religione o che ne dubitano fortemente ma non c’è posto per artisti che esprimono una fede semplice e ordinaria». Adesso è tutto chiaro: per fare arte religiosa bisogna essere irreligiosi. E per fare arte tout court? In tal caso l’irreligione esplicita non è necessaria ma resta vietata la religione esplicita siccome «il significato dell’arte deriva dalle teorie sul Modernismo, che escludono rigorosamente il significato religioso». Prego rileggere: «Escludono». Anzi: «Escludono rigorosamente». E tutto ciò in un mondo, quello artistico, in cui oggi la parola d’ordine, ripetuta a pappagallo ovunque, nei comunicati, nei cataloghi, nelle interviste, è inclusione. Inclusione di tutti da tutti i punti di vista, razziale, sessuale, sociale, meno che dal punto di vista religioso. I significati religiosi e dunque i portatori di significati religiosi vanno esclusi. Rigorosamente.
Sono uscito talmente provato dalla lettura dello strano libro che ho dovuto chiedere conforto a Giovanni Gasparro, il campione italiano dell’arte sacra, i cui quadri sono richiesti in tutto il mondo (Stati Uniti compresi). Come fai a dipingere Santi e Madonne se il Modernismo non vuole? «Faccio benissimo, per la mia generazione le teorie del Modernismo sono antiquariali». In effetti Gasparro è nato nel 1983 mentre il critico Clement Greenberg ha cominciato a teorizzare il Modernismo (antifigurativo prima ancora che antireligioso) nel 1939. Non è poi così moderno questo Modernismo... Elkins, che di Greenberg è un nipotino, arriva ad affermare che «l’arte seria è ormai estranea alla religione» e allora l’arte di Gasparro sarà poco seria, arte da ridere: «Il concetto di comicità credo si sposi più all’aniconismo proposto da Elkins, perché è una parodia della grande arte sacra che ammiriamo nelle chiese antiche».