il Giornale, 9 febbraio 2022
Biografia di Sigfrido Ranucci
O lo ami o lo odi. Lui è uno di quelli che ha una claque di fan sfegatati pronti a difenderlo qualsiasi cosa faccia e una vasta platea di nemici che vorrebbero vederlo se non all’inferno, quasi. Sigfrido Ranucci, il conduttore e anima di «Report» è perennemente nell’occhio del ciclone, non passa settimana che le sue inchieste non facciano imbufalire qualcuno, che non si prenda una querela, che non ingaggi una guerra con questo o quel politico, che non venga coinvolto in polemiche per vicende personali. Se il suo programma non lascia il segno un lunedì, gli manca l’aria.
Da quando, nel 2017, ha preso il posto di Milena Gabanelli alla guida di «Report», ha alzato la mira sparando sempre più cannonate. Elmetto sulla testa, l’atteggiamento è quello del giornalista duro e puro che non ha paura di nulla e che sa di avere la ragione in tasca: un «eroe del giornalismo» per chi lo apprezza, uno «che gioca a fare il martire» per chi non lo sopporta. Tra questi ultimi il critico del Corriere della sera Aldo Grasso che pochi giorni fa ha bollato come «tragicommedia del giornalismo complottista» la puntata dedicata a Berlusconi che conteneva un’intervista a Noemi Letizia. Per Grasso il metodo «Report» gestione Ranucci è noto: sposare un teorema, dimostrarlo in tutti i modi usando spezzoni di intervista, interlocutori malati e filmati rubati. Un metodo, tecnicamente, basato sulla spinta emozionale: la promessa di mostrare uno scoop, un’intervista «bomba», documenti «inediti» che spesso si risolvono in lunghi servizi, molto molto particolareggiati, che però non è detto che dimostrino la tesi. Sempre chi lo odia, fa la differenza tra il prima e il dopo Gabanelli: anche lei, certo, spingeva sul sensazionalismo, anche lei mandava in bestia chi prendeva di mira (con una pila di documenti alla mano), ma con Ranucci il metodo è portato all’ennesima potenza. Certo il pubblico lo premia, gli ascolti vanno bene e pure il Qualitel, lo strumento che registra l’apprezzamento da parte degli spettatori, lo mette al primo posto tra i programmi di approfondimento Rai.
E lui, personalmente, paga le conseguenze del suo mettersi in trincea. È sotto scorta a causa delle minacce di morte che gli sono arrivate da un carcerato «che fa affari con la droga ed è legato alla Ndrangheta», ha spiegato lui.
Qualche mese fa in una lettera anonima veniva accusato di comportarsi in maniera non professionale, dal mobbing sugli altri giornalisti della redazione fino alle avance sessuali verso le colleghe. «Accuse che non sono state riscontrate», ha chiarito in Commissione Vigilanza l’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes. Accuse che si vanno ad aggiungere a una lunga lista di altre, da essere un sostenitore dei no vax, al pagamento delle fonti, al carteggio con Casalino. Che ovviamente Sigfrido respinge ai mittenti.
Uno dei più infuriati con lui è Matteo Renzi per il servizio, che ha creato un polverone infinito, sull’incontro in autogrill con l’agente dei servizi segreti Marco Mancini. Ma è molto lungo l’elenco delle inchieste che hanno messo nei guai il giornalista che ha cominciato la sua carriera lavorando a «Paese sera» ed è approdato al Tg3 nel 1989. Prima di arrivare nella redazione di «Report» è stato inviato nei Balcani e ha seguito gli attentati dell’11 settembre a New York. Hanno fatto scalpore le sue inchieste sul traffico illecito di rifiuti, sulla mafia, sull’utilizzo di armi non convenzionali, come l’uranio impoverito, sull’uso, da parte dell’esercito americano, di agenti chimici durante i combattimenti a Falluja, in Iraq. Grande polemica ha suscitato la trasmissione dell’ultima intervista da lui rinvenuta del giudice Paolo Borsellino, in cui parlava dei rapporti tra Dell’Utri, Mangano e Berlusconi. Nel 2010 ha realizzato l’inchiesta che ha portato al ritrovamento e al sequestro della pinacoteca di Calisto Tanzi. Nel 2017 la Gabanelli gli ha lasciato il testimone della sua creatura. E, da allora, non c’è stata settimana senza servizi «bomba».