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 2022  febbraio 08 Martedì calendario

“BASTA RACCONTARE I GIOCATORI AFRICANI SOLO COME VITTIME, COME STORIE TRISTI. SONO STATO UN BAMBINO POVERO? SÌ, MA ORA SONO QUALCOSA DI PIÙ” – VICTOR OSIMHEN SI RACCONTA A TUTTO CAMPO: “IL RAZZISMO? HA RAGIONE THURAM, I PRIMI AD USCIRE DOVREBBERO ESSERE I GIOCATORI BIANCHI, PERCHÉ CONSAPEVOLI DI UN'INGIUSTIZIA. MA NELLO STADIO CI SONO ANCHE QUELLI CHE...” – “LO SCONTRO CON SKRINIAR: "HO SENTITO SUBITO CHE LA FACCIA MI ERA ESPLOSA. E APPENA MI SONO TOCCATO SULLA GUANCIA…” -

Potreste scambiarlo per un velocista. Per un fratello africano di Bolt. Gambe lunghe, corpo agile, scatto magico, pettinatura picassiana, e ancora lingua inglese. C'è chi lo ha paragonato al Molleggiato (Adriano Celentano) per come è capace di disarticolare il suo corpo. Victor Osimhen, 23 anni, l'uomo con la maschera (nuova), è tornato (titolare) dopo due mesi e mezzo e a segnare (6 gol in campionato) dopo 112 giorni, a Venezia. Ci voleva fegato per dare una zuccata così prepotente, dopo aver subito la frattura dello zigomo in uno scontro di gioco con Skriniar dell'Inter.

 Victor, la sua è stata quasi una frattura da pugile.  «Infatti ho sentito subito che la faccia mi era esplosa. E appena mi sono toccato sulla guancia sinistra non avevo più sensibilità. Ho avuto problemi anche a dormire, se mi giravo sul quel lato, faceva male. Però ho recuperato le forze, trascinato dalla voglia di giocare e di migliorare proprio sui colpi di testa. Non sono tipo da frenare la mia esuberanza, mai fatto calcoli, anzi ho sempre cercato di rimettermi in piedi subito, senza piangermi addosso. Io salto, scarto, scatto. Non ho paura di farmi male, e se perdo mi arrabbio. Sono molto suscettibile su questo, non mi arrendo». 

Il suo nome significa Dio è buono.  «Sì, vengo da Lagos, Nigeria, ma sono originario di Osun, stato del sud, dove convivono cristiani come me e musulmani. Ho perso mia madre subito, io sono l'ultimo figlio, ho tre sorelle e fratelli. Papà non trovava lavoro, così ci siamo spostati nella capitale: una sorella vendeva arance, un fratello giornali, io pulivo grondaie e tagliavo erba. Tutto, pur di sopravvivere. Mio fratello più grande, Andrew, ha rinunciato a studiare, per mantenere me appena sono entrato nella scuola calcio. Devo riconoscenza a lui e alla mia famiglia. Le radici sono importanti». 

Si è mai cronometrato sui 100 metri? «No. Però correvo, da ragazzino facevo gare per strada. La Nigeria è una terra di velocisti. Spesso arrivavo secondo, qualche volta primo. Ma la passione era per il pallone. Il primo Mondiale che ho visto in tv è stato quello in Sudafrica nel 2010, tifavo Olanda, per via di Sneijder, per cui andavo matto. Mi piaceva la sua concretezza, sapeva sempre cosa fare, e ci sono rimasto male quando in finale ha vinto la Spagna». 

Però il suo mito è Drogba.  «Sì, ma non solo come calciatore. Mi piacciono i trascinatori. E lui lo è e lo è stato anche fuori dal campo, dove conta di più. È il tipo di personalità che ammiro». 

La cosa più difficile per un calciatore africano che arriva in Europa?  «Per me è stato il freddo. Sono andato al Wolfsburg e giocavo su campi spesso ghiacciati. Soffrivo, avevo le dita dei piedi rattrappiti, non riuscivo ad esprimermi. Mi ha molto aiutato con i suoi consigli Mario Gomez. Poi mi sono operato alla spalla, le cose non andavano. Ho fatto dei provini in Belgio, sono stato respinto, anche perché avevo preso la malaria. Poi Charleroi, un anno, e Lille. Se ho mai dubitato di potercela fare? No, non mi sono nemmeno mai posto la domanda, che continua a sembrarmi un lusso. Sentivo obblighi e responsabilità verso la mia famiglia. E a proposito dell'infanzia difficile, basta». 

Va bene, basta. «Non ne posso più. L'ho già detto mille volte. Lo sanno tutti che appena vedo bambini vendere acqua ai semafori non provo né antipatia né insofferenza. Non potrei. Ma basta raccontare i giocatori africani solo come vittime, come storie tristi. Siamo bravi calciatori, io voglio migliorarmi, in attacco e difesa, imparare ad aiutare la squadra in ogni parte del campo. Sono stato un bambino povero? Sì, ma ora sono qualcosa di più. Altrimenti mi inchiodate a un passato che non rinnego, ma che non tiene conto di come sono andato avanti. Tengo alla qualità, alla tecnica, voglio diventare più bravo». 

Differenze tra Gattuso e Spalletti?  «Mi hanno aiutato tutti e due, posso e devo solo ringraziarli». 

Attaccante italiano preferito?  «Immobile. Lo trovo straordinario. E lo ammiro. Sbuca sempre tra le difese, non si sa come ha il pallone tra i piedi, è sempre lì al momento giusto, magari non lo vedi, eppure eccolo improvvisamente tirare in porta. Fa sembrare tutto facile, soprattutto il gol. Un vero pirata». 

Il difensore più ostico?  «Romero, ora al Tottenham. Ogni volta che mi ha marcato è stato più veloce di me, abile anche nell'anticiparmi. E Koulibaly in allenamento, che non mi fa mai segnare. Quando è stata eliminata la mia Nigeria, ho tifato Senegal». 

Solo per quello?  «No. Ogni volta che si può fare del bene con lui non c'è bisogno di insistere. Al Napoli ho trovato compagni molto solidali. Quando c'è da fare una raccolta fondi o trovare dei soldi per un'iniziativa lui mi dice: dimmi, chiedimi, cosa posso fare? Non è il solo, anche Fabian Ruiz e Mertens sono sempre disponibili». 

A Napoli lei abita in centro.  «Sì. A Posillipo, al piano terra. E anche se posso passare per ingenuo non mi immaginavo una città così calda e pazza per il calcio. Solo ora mi rendo conto di come possa essere stato difficile per Maradona trovare un po' di intimità e sopportare la pressione». 

Chi l'aspetta a casa?  «Ho una fidanzata. E devo anche ad una donna questa mia capigliatura. Ero a Charleroi e non sapevo che lì i barbieri chiudono presto. Così ho iniziato a tagliarmeli da solo, ma ogni rasoiata in più non ha fatto che peggiorare la situazione, allora la mia fidanzata mi ha detto: te li coloro e ci penso io. Quello che è uscito fuori mi è piaciuto». 

Cosa pensa della scelta di Insigne?  «Ne penso bene. È un uomo con una famiglia, avrà valutato, ragionato e scelto quello che è meglio per lui. Sono in una situazione diversa, ma non sono di quelli che dicono: io mai come lui».

Lei segue i rapper nigeriani.  «Ascolto Olamide e il giovane Lil-whisky. Mi danno la carica, ma non dopo la partita, quando ho bisogno di rilassarmi ascolto musica dance o soul. Io però non canto bene, ma giuro che se succede una certa cosa m' invento un nuovo ballo in campo. Una Victor-victory dance». 

Ecco, appunto, ci pensa?  «Mi piacerebbe vincere insieme: Napoli, il Napoli e io. Condividere un viaggio. Ma per lo scudetto devo essere molto di più di un individual player. Allora sì che mi darebbe proprio soddisfazione e trovo che per la città sarebbe strepitoso. Il calcio di Serie A lo trovo competitivo, ogni domenica c'è una squadra che può sbatterti fuori. Mi criticano perché sono permaloso, perché non lascio correre, né un'occasione né un commento, ma io sono felice solo se do il mio meglio, il calcio è il 97% della mia vita, e se qualche volta sui social eccedo, lo faccio solo perché cerco leggerezza. Sono un ragazzo di 23 anni, avrò pur diritto a non essere profondo». 

Il razzismo negli stadi ancora lo è.  «Ho sentito gli insulti. Gente che dice quelle cose non merita di entrare in uno stadio. Ha ragione Thuram, i primi ad uscire dovrebbero essere i giocatori bianchi, perché consapevoli di un'ingiustizia. Ma nello stadio ci sono anche quelli che ti applaudono, che si scusano per gli altri. E a loro dico grazie perché almeno non fanno giocare l'indifferenza».