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 2022  febbraio 08 Martedì calendario

Rileggere Cristo si è fermato a Eboli

È il 1935 quando Carlo Levi, arrestato per attività antifascista, viene condannato al confino in Basilicata – prima a Grassano, poi ad Aliano – e bisognerà aspettare gli anni tragici dell’occupazione nazista, ’43 e ’44, perché lo scrittore, pittore e medico torinese licenzi il libro che lo renderà celebre in tutto il mondo. Eppure, a rileggerlo oggi, Cristo si è fermato a Eboli sembra la cronaca di un’epoca remota scritta con le tecniche più frequentate dalla letteratura delle ultime stagioni. Romanzo- reportage, autofiction, non fiction novel, apologo civile, saggio antropologico, trattato di sociologia... Carlo Levi fonde tutti questi generi in un capolavoro di misura e intensità emotiva molto prima che Alexandr Solženicyn, Truman Capote, Javier Cercas, Masha Gessen, Emmanuel Carrère cominciassero a scrivere.
Suoi antecedenti possono essere il Jack London de Il popolo dell’abisso o il Fedor Dostoevskij di
Memoria di una casa di morti.
«Esiste un altro mondo, ma è in questo», recita un felice passo di Paul Éluard. Carlo Levi scopre nel suo paese un altro mondo, nell’Italia che si vorrebbe unificata nella farsa brutale del fascismo trova l’abisso dei contadini lucani. È una dimensione parallela (potrebbe essere una delle città invisibili di cui scriverà Calvino, o uno dei mondi alternativi in cui ci scaraventerà Vonnegut, solo che qui è tutto reale) e al tempo stesso la “parte mancante” senza la quale l’Italia non può essere compresa. («Tu non conosci il sud, le case di calce / da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia d’un dado», recita la poesia più nota di Carlo Bodini, ed è difficile tirare il filo del rimpianto senza che risuoni l’ammonimento). I contadini di Levi sono poveri, malarici, sfruttati dai latifondisti, calpestati o ignorati dal potere nazionale, ma sono anche la testimonianza vivente di una civiltà millenaria che davanti all’uomo venuto da Torino (la città dei Savoia, conquistatori prima dei fascisti) si erge come uno scandalo, un esercito di spettri, un monito, una benedizione.
Non si tratta solo di un popolo prepolitico (Roma è la grande sanguisuga qualunque divisa indossi) ma anche, come recita il titolo del libro, precristiano (il tempo dei contadini non prevede escatologia, è eternamente circolare). I proletari inurbati di Pasolini (non una preistoria incantata, ma una retroguardia della modernità) sono molto diversi dai contadini di Levi, che avrebbero forse qualche punto di contatto con i protagonisti di Novecento di Bernardo Bertolucci, i quali ultimi, tuttavia, affiorano alla modernità aggrappati al salvagente del socialismo, che nella Lucania del libro manca del tutto.
Cristo si è fermato a Eboli è dunque la cronaca di una scoperta, ma è anche la storia di un’educazione, quella di Levi attraverso i contadini.
«Il cielo era rosa verde e viola, gli incantevoli colori delle terre malariche, e pareva lontanissimo». È questo il paesaggio che si spalanca allo scrittore quando arriva in Lucania. Benché sia al confino, Levi ha studiato, è medico, è un artista, viene dal nord, ha tutto per diventare lo specchio del santimonioso autocompiacimento di notabili e padroncini locali. Circondato dai salamelecchi dei pochi borghesi del paese, lo scrittore sente subito odore di ipocrisia (ogni blandizia nasconde una trappola), e preferisce rivolgersi ai contadini. È affacciandosi su questo “grande altro” che scopre qualcosa di totalmente nuovo e, al tempo stesso, si conosce. Ci costruiamo nell’altro, non nell’uguale. I contadini riconoscono a propria volta in lui un possibile alleato: Levi è un medico, un borghese, certo, ma molto diverso da quelli cui sono abituati, conosce l’uso del chinino, non è un “medicaciucci” (locuzione con cui i contadini apostrofano i medici di paese, totalmente ignoranti, e sordi alle loro richieste), può aiutarli contro la malaria che li consuma quotidianamente. Ecco allora che, come un palombaro, Levi si immerge poco per volta in un regno oscuro e affascinante, dove la morte è una presenza perenne, la magia una pratica comune, le leggi del sesso seguono tortuosi percorsi sotterranei, il sopruso scatena rivolte improvvise ma mai risolutive, con il dolore, la fatica e la miseria che paiono restituire l’uomo alla sua dura e semplice radice.
Sono molti i momenti rivelatori di questo libro. Proverò a ricordarne qualcuno. L’assurda eppure comprensibile sensazione di pace che coglie l’autore davanti a un contadino morente a causa della malaria («la morte era nella casa: amavo quei contadini, sentivo il dolore e l’umiliazione della mia impotenza. Perché allora una così grande pace scendeva in me? Mi pareva di essere staccato da ogni cosa, da ogni luogo, remotissimo da ogni determinazione, perduto fuori del tempo, in un infinito altrove»).
La furia dei contadini verso le autorità locali che proibiscono a Levi di esercitare la professione medica, che a un passo da diventare violenza devastatrice prende le forme di una rappresentazione teatrale messa in scena per protesta davanti alla casa del podestà («vennero un giorno da me due giovani a chiedermi in prestito, con aria misteriosa, una mia tunica bianca da medico»). Un modernissimo pisciatoio pubblico proveniente da Torino che nessuno utilizza, comica testimonianza dei rapporti tra le due Italie («una sola persona lo usò, e quella persona ero io: e non lo usavo, debbo confessarlo, spinto dal bisogno, ma dalla nostalgia»).
A quasi ottant’anni dall’uscita di Cristo si è fermato a Eboli l’Italia è cambiata molte volte, ma la questione meridionale è tutt’altro che risolta. Ci sono poi ancora gli invisibili, non è difficile trovare altri mondi nel nostro, basti pensare ai nuovi poveri, a certi gruppi di extracomunitari, al ritorno del caporalato, ma sono pochi quelli che hanno voglia di scoperchiare il vaso. Se n’è occupato Alessandro Leogrande finché è vissuto. Se ne occupano riviste come Gli Asini, attivisti come Aboubakar Soumahoro e pochi altri. Ecco che l’attualità della lezione di Carlo Levi non riguarda solo la tecnica narrativa ma anche l’etica del racconto.