la Repubblica, 8 febbraio 2022
Intervista a Michael Capasso
NEW YORK. Quando andavo a scuola – racconta Michael Capasso – ripetevano sempre: chi rifiuta di ricordare il passato è condannato a riviverlo». Perciò il direttore della New York City Opera si è preso il rischio di mettere in scena al National Yiddish Theatre Folksbiene l’adattamento del Giardino dei Finzi Contini, composto da Ricky Ian Gordon col libretto di Michael Korie: «Infatti la storia si sta ripetendo, in questi giorni, in Ucraina».
Perché trasformare in opera il libro di Bassani?
«Compositore e librettista mi hanno portato il progetto.
Conoscevo libro e film, ma sono stato affascinato dall’idea dell’opera. Ho accettato subito di produrla, al Museum of Jewish Heritage, perché dava più peso e significato».
E sul piano artistico?
«È una perfetta storia operistica, ci sono tutti gli elementi: amore, famiglia, significato storico. Perché sarebbe diversa dal Nabucco ?
Semmai sorprende che un compositore italiano non ci abbia provato prima».
Forse perché comporta troppi rischi?
«Ci siamo basati sul libro, non sul film, che non era piaciuto a Bassani. Abbiamo fatto molte ricerche a Ferrara con la comunità ebraica.
Ovviamente devi prendere drammatiche licenze poetiche, quando adatti qualsiasi lavoro per il palcoscenico».
Tipo rendere esplicita l’omosessualità di Alberto?
«Ha creato un potente momento drammatico, un altro conflitto, un’altra storia d’amore, anche se non richiesta. E poi, francamente, consentiva di scrivere una bellissima aria che umanizza Alberto. Ha passato la vita adorando a distanza un uomo, che lo ignora. Offriva un’opportunità espressiva, che era molto importante per gli autori».
Avete seguito lo stesso processo con Micol?
«Lei può apparire molto superficiale, nel libro e nel film. Egocentrica, vive in una bolla. Una ragazza ricca e viziata, abituata ad avere qualunque cosa voglia, senza idea di cosa le prepara il mondo. Ma nella scena finale alla stazione va dal padre di Giorgio e scopre che è al sicuro. È felice che sia salvo, anche se lei sa di andare verso la propria fine».
Questo la riscatta?
«Aveva capito tutto. Per farlo vivere lo ha spinto via. La sua crudeltà ha salvato la vita di Giorgio».
Ci sono passaggi colloquiali, tipo “l’ouch” pronunciato da Giorgio quando Micol lo rifiuta.
«Per collegare l’opera a un pubblico contemporaneo».
Il “New York Times” ha scritto che è troppo lunga.
«Una durata standard, circa tre ore.
La vita è breve, ma l’opera è lunga.
Raccontare una storia così complicata richiede tempo».
E il pubblico come ha reagito?
«Fantastico. Applausi in piedi, tutto esaurito a ogni replica. La gente ama i Finzi Contini, si relaziona perché è una storia senza tempo.
Antisemitismo e razzismo esistono ancora oggi, le persone vengono perseguitate per il solo fatto di essere vive. È orribile, e sorprende quanto sia attuale questa vicenda. Uno pensa: è il passato, non succederà più. Ma accade ora».
L’Europa è di nuovo sull’orlo della guerra in Ucraina.
«Non abbiamo imparato nulla. Mia figlia è ucraina. Cioè, è un’ebrea americana, ma sua madre era ucraina. Il Paese che ora i russi vogliono riprendersi».
Whoopi Goldberg ha detto che l’Olocausto non era razzismo.
«Dichiarazione infelice. In Italia fu pubblicato il
Manifesto della razza : mio Dio, cosa vorrà dire mai? La superiorità degli ariani sugli ebrei, come negli Usa abbiamo quella dei bianchi sui neri, dei russi sugli ucraini. È un tema presente in tutto il mondo, non impariamo mai dagli errori del passato».
La vostra opera è più rilevante a causa di questa ignoranza?
«Un articolo diceva che il Covid è un complotto ebraico, perché i leader di Moderna e Pfizer sono ebrei e hanno inventato la pandemia per fare soldi. È ridicolo...».
Così non scalfite l’unicità dell’Olocausto?
«Sono un produttore di opera, non un politico. Ma un lavoro così, che ricorda il passato e rispecchia il presente, ha rilevanza».
Giorgio dice di voler lasciare dietro Ferrara, Micol, i genitori. Non va contro l’obbligo di non dimenticare?
«Deve lasciare Micol e Ferrara per andare in America a cominciare una nuova vita.
Non dimenticherà mai gli orrori dell’Olocausto, ma ha il bisogno fisico di allontanarsi.
Lui è vivo perché lei lo ha rigettato. È un’opera sulla memoria, ma per salvare se stesso, stavolta psicologicamente, deve andare via».
Questa storia ricorda a noi italiani che non sempre siamo stati brava gente?
«Ovvio. Io vengo da una famiglia italiana, parlavo l’italiano prima dell’inglese. Ma quando studi la storia, pure prima del Manifesto della Razza c’erano problemi. Non sempre gli italiani sono stati brava gente.
Anche loro devono fare i conti col passato, e andare oltre. Credo lo abbiano fatto, perché l’Italia è paese molto accogliente, anche se ora torna il tema dei migranti».
Porterà la sua opera nel nostro paese?
«Sì, andrebbe molto bene in Italia.
Noi abbiamo fatto una versione da camera, ma nei vostri teatri, con orchestra e coro, possiamo espanderla. Metà libretto è già tradotto. Dalla prossima settimana inizierò a contattare i colleghi.
Dovrebbe andare a Ferrara, poi Genova, Venezia, Verona. Dovrebbe andare ovunque».