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 2022  febbraio 08 Martedì calendario

Storia della dignità

La parola “dignità”, che Sergio Mattarella ha usato l’altro giorno nel suo discorso d’investitura, ha una storia non lineare. Da un lato, dignità è stata a lungo associata alla parola “onore”, poiché il latino dignus indicava “lo stato o condizione di chi rende meritevole del massimo rispetto” (Giacomo da Lentini) e in questo associata alle cariche che comportano onori, preminenze e autorità. Nel corso del Medioevo, e successivamente, la dignità apparteneva alla classe nobiliare, che se ne avvaleva come una forma naturale di investitura. Non a caso Manzoni ne I promessi sposi
ironizza sulla dignità mondana di don Rodrigo contrapposto a fra Cristoforo: il falso senso dell’onore del signorotto. Del resto, in suo dialogo, De la Dignità del 1580, Torquato Tasso tratta della dignità, intesa come superiorità riconosciuta a qualcuno in ragione dei suoi meriti. Però c’è anche una linea di pensiero che rimonta a Tommaso d’Aquino per cui l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, orienta le proprie scelte nella direzione di Colui che è degno: la tensione morale verso Dio. In Kant questa idea si laicizza; e poiché l’umanità è dotata di razionalità e capacità morali, la sua dignità si compendia nella formula “trattare l’uomo in te come negli altri sempre come fine e mai solo come mezzo”. Al culmine dell’umanesimo Pico della Mirandola scrisse nel 1486 un discorso, Oratio de hominis dignitate, che doveva essere discusso davanti ai sapienti della Chiesa, ma che non fu mai tenuto (Einaudi ne ha di recente approntato una bella edizione). Riscoperto nel corso del Cinquecento questo testo è la fonte della riflessione di Kant. L’ipoteca umanistica, che ha pesato su questo termine, ha trovato una sua definizione nuova solo dopo il disastro della Seconda guerra mondiale e la tragedia dei Lager nazisti.
Primo Levi ne parla in Se questo è un uomo (1947) in più passi. Il primo in cui appare è nel capitolo Sul fondo: “Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità”. In un sol giro di frase lo scrittore torinese dà forma e sostanza alla dignità e alle conseguenze della sua mancanza. Nella letteratura italiana del dopoguerra il termine non è molto presente, se non per indicare la dignità degli ultimi, degli umili, come in Carlo Levi, in Luigi Meneghello e in Leonardo Sciascia, per quanto rimanga sempre il suo significato originario; in Cristo si è fermato a Eboli si parla, ad esempio, di un paesaggio degno d’essere dipinto o del cane Barone che è degno perché diverso dagli altri cani. Il movimento socialista e operaio ha parlato di dignità del lavoro, altro tema ben presente in Primo Levi. In questo senso l’accento posto sulla dignità dal Presidente della Repubblica ha un significato che discende sia dal pensiero cristiano che dalle rivendicazioni sociali del Novecento, il secolo che ha messo la dignità in cima al tema dei diritti.
Nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 è scritto: “L’unico e sufficiente titolo necessario per il riconoscimento della dignità di un individuo è la sua partecipazione alla comune umanità”. Questo lega la dignità al principio d’uguaglianza contro ogni discriminazione, cardine del moderno diritto giuridico.
Unire dignità e lotta alla povertà, come ha fatto Mattarella, assume poi un ulteriore connotato di necessaria democrazia economica, che era già nel pensiero sociale del gruppo dossettiano alla Costituente, e in particolare in Aldo Moro, suo maestro.