La Stampa, 8 febbraio 2022
Biografia di Ludwig Pollak
Via via che incalza il racconto di questo libro appassionante, chi lo legge si sente sull’orlo di un abisso. Accanto c’è un amico pronto a portarti in salvo; alle spalle risuonano sinistri sull’asfalto i passi chiodati del nemico che vuole ucciderti. Per sopravvivere basterebbe dire un “sì”, ma Ludwig Pollak, che in questa condizione si trovò a Roma il 15 ottobre 1943, quell’assenso non volle pronunciarlo. Rinunciò a rifugiarsi in Vaticano, dove per lui e famiglia erano pronte stanze ospitali. Rimandò indietro l’inviato d’Oltretevere che era venuto a convincerlo e la macchina rimasta per ore ad attenderlo sotto casa (palazzo Odescalchi in piazza Santi Apostoli). Il giorno dopo, Pollak e i suoi furono tra i mille ebrei romani rastrellati dai nazisti, deportati nei lager e poi assassinati. Questo l’antefatto storico del piccolo e prezioso Le ultime ore di Ludwig Pollak, ora riproposto in italiano da Sellerio con la bella traduzione di Matteo Galli (l’originale tedesco è del 2021).
La narrazione è costruita secondo un’abile mise en abyme: la scena è una stanzetta in Vaticano, dove un insegnante berlinese, K., sta parlando in tedesco con un monsignore italiano, già diplomatico di Sua Santità. È il pomeriggio del 16 ottobre: K. fa il resoconto della sua visita del giorno prima a casa Pollak, una missione fallita. Ma gli si è scolpita nell’animo la voce di Pollak, una sorta di autobiografia intellettuale, straziante lascito di un uomo posseduto dal desiderio di rendere testimonianza «proprio quando tutto finisce», e combattuto fra l’incredulità e la rassegnazione davanti alla barbarie incombente: «non credo che verranno a prendermi», «non si deve forse accettare il destino che ci è toccato in sorte? E se poi è il destino di un popolo, del proprio popolo? Ma non verranno. Non domani». Come sappiamo, vennero. E Pollak (che aveva 75 anni) fu ucciso ad Auschwitz pochi giorni dopo.
In un gioco di scatole cinesi, il dialogo fra il monsignore e K. fa da cornice a quello fra K. e Pollak, dove è a sua volta incastonato il soliloquio di Pollak che rievoca la propria vita. Non ci sono virgolettati, ma il lettore distingue benissimo il timbro delle tre voci, che tuttavia parlano lo stesso linguaggio: il tedesco di Goethe, di cui rilanciano allusioni e citazioni. Ludwig Pollak era nato a Praga nel 1868, quando la città era parte dell’Austria-Ungheria e vi dominava il tedesco. A lui, archeologo, collezionista e consigliere di collezionisti (fra cui il barone calabrese Giovanni Barracco, fondatore dell’omonimo Museo romano), ma anche mercante e raffinato conoscitore di letteratura e d’arte, è stata dedicata pochi anni fa (2018-19) una bella mostra a cura di Orietta Rossini, divisa in due sezioni, al Museo Ebraico e al Museo Barracco. Sfogliandone il catalogo (Ludwig Pollak, archeologo e mercante d’arte, Gangemi), vi ritroviamo i personaggi che nutrono la sua conversazione nel romanzo: John Pierpont Morgan, fondatore della Biblioteca-Museo di Manhattan, l’ambasciatore russo Alexander Nelidow, il creatore delle collezioni berlinesi Wilhelm von Bode, ma anche John Marshall, anche Rodin, anche Freud. A quest’ultimo e a Pollak furono dedicati nel 2019 un convegno e un libro, L’ossessione per l’antico. Sigmund Freud e Ludwig Pollak tra ebraismo, archeologia e collezionismo (Musei Capitolini e Museo Ebraico).
Come quei due volumi, anche il romanzo di Hans von Trotha presuppone i ricchi diarii di Pollak, venticinque quaderni manoscritti conservati al Museo Barracco. Così ne parla Pollak nel romanzo: «Bisogna fare in modo che altri possano ricordare quando noi non ci saremo più. Altrimenti verremo dimenticati e con noi tutto ciò che ha avuto importanza nella nostra vita. Altrimenti è stato tutto vano. Per questo ho tenuto un diario. Tenendo un diario le cose svaniscono in modo diverso». Come racconta K., Pollak non cessava di raccontarsi, dall’infanzia praghese ai successi mondani (decorazioni del Papa, del Re d’Italia, dello Zar, del Kaiser, udienze di sovrani e onori accademici: «a un ebreo, se lo immagina!»). «Ricordando il passato, dice K., Pollak rimandava il presente e mi teneva prigioniero. E se cercavo d’interromperlo per invitarlo ad andare, attaccava con qualcosa di nuovo (...). “La prego, la imploro, in assoluta libertà, la prego, andiamo via”. Lui guardò verso di me – o forse attraverso me – con gli occhi spalancati e continuò a raccontare. Non stava parlando con me, aveva bisogno di un testimone che lo ascoltasse; che fossi io era solo un caso, ero in rappresentanza di tutti coloro che dovevano ascoltare la sua storia».
Le grandi passioni di Pollak sono Roma («la terra benedetta della mia vita») e Goethe, il solo ad aver colto l’essenza dell’arte classica, assai meglio della «nobile semplicità e quieta grandezza» di Winckelmann: «concetti astratti, non un vero conforto.
Solo Goethe è sempre un conforto. Fintanto che leggiamo Goethe, noi siamo al sicuro». Collezionista sofisticato, Pollak era convinto che le collezioni private, più dei musei, conservano l’anima del gusto e della passione per l’antico. Eppure, quando ebbe in mano la sua scoperta più importante, il braccio mancante del Laocoonte, fu ai Musei Vaticani che Pollak lo donò. La vicenda di questa statua ancor oggi celeberrima e del suo braccio destro ebbe un ruolo centrale nella vita di Pollak, e lo ha nel libro di von Trotha, dove il tema non è solo archeologico, ma si traduce in una potente metafora dell’animo umano, e in particolare dello stesso Pollak. Non a caso, infatti il titolo dell’originale tedesco, conservato anche dalla traduzione inglese, è Pollaks Arm, “Il braccio di Pollak").
La prodigiosa statua del padre doloroso coi due figli tra le spire dei serpenti fu ritrovata nel 1506 ma con alcune lacune, fra cui il braccio destro di Laocoonte. Già nel Cinquecento si discusse se e come restaurarlo, e si optò alla fine per un braccio drammaticamente levato verso l’alto. Per molti, dice Pollak, «fu una fortuna che il braccio destro fosse rotto e perduto», così hanno potuto immaginarlo come lo volevano.
Ma nel 1903 Pollak vide e riconobbe il braccio mancante nella bottega di uno scalpellino in via Labicana (non lontano da dove il Laocoonte era stato trovato quattrocento anni prima): «Il vero braccio destro del Laocoonte era tornato. E non era esteso in gesto sublime, ma era piegato, anzi vinto. L’eroe non è affatto un eroe, e non posso farci niente. Non l’ho scolpito io quel braccio. Io l’ho solo trovato. E riconosciuto» (il braccio donato da Pollak è davvero quello originale, come si vide quando i Musei Vaticani decisero di rimontarlo sulla statua nel 1957).
Dal braccio in posa eroica a quello dolorosamente piegato al gomito c’è un salto non solo estetico, ma etico. «Ènel braccio destro che risiede la verità. Non della vita e della morte, la morte per Laocoonte è sicura. Ma il modo come lui affronta il serpente, se chi sta per morire è un eroe o un essere umano degno di compassione, è il braccio destro a dirlo». Il vero braccio del Laocoonte antico non è levato al cielo come nell’ultimo grido di un eroe, ma flesso e raccolto come nel gemito impotente di una vittima. «Il braccio alzato è monumentale, sublime e falso. Il braccio che ho trovato io, il mio braccio, il braccio di un uomo perduto, è quello giusto (...). I serpenti sono oggi diffusi in tutta Roma, stritolano e mordono assaporando la rovina delle vittime. Siamo più al sicuro se non usciamo e restiamo qui. Che cosa potranno mai volere da un vecchio come me? Il serpente vince comunque, questo ci insegna il Laocoonte. Contro i serpenti inviati dagli dèi l’uomo non vince mai, non in questo mondo almeno».
Per Ludwig Pollak Roma e la lingua di Goethe erano la dimora del suo spirito: che dovessero catturarlo e ucciderlo, nella sua città d’elezione, serpenti che parlavano tedesco egli non voleva e non sapeva crederlo. Quale testimonianza migliore di quel «mondo di ieri» che un altro ebreo di lingua tedesca, Stefan Zweig, avrebbe presto evocato? —