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 2022  febbraio 07 Lunedì calendario

Polveriera Sahel

Sentite: «Francesi, toglietevi dai piedi!». Perentorio, chiaro, comprensibile. I popoli, gli affamati, i dimenticati, gli sfruttati sanno ben trovare le parole giuste quando non ne possono più di decenni di prepotenze. Nel Sahel uno dei colonialismi più loschi, predatori, capace di eternizzarsi attraverso un uso subdolo di forza e stomachevoli mimetismi, quello francese, perde i pezzi. Una rabbia atmosferica che scoppia qua e là, incontenibile, lo sfascia davanti ai nostri occhi in un puzzo di marciume, disperazione e impotenze.Il piccone lo ha impugnato una nuova generazione di militari golpisti che rovesciano le false democrazie della corruzione che Parigi tiene in piedi in queste periferie già sbocconcellate dalla jihad islamista: per prolungare, con vecchie furbizie, i suoi «interessi legittimi».Sì, furoreggiano nell’Africa dell’Ovest i golpe, orrida parola: richiama, soprattutto qui, una tradizione particolarmente brutale di rozzi pretoriani in basco rosso e occhiali scuri. Verrebbe voglia di unirsi al coro, guidato da Parigi e dai suoi alleati indigeni, che invoca ed esige il ritorno nelle caserme e la restaurazione dei presidenti «legittimi».Ma se si percorrono in questi giorni di volontà tese e violente le strade di Ouagadougou, Conakry, Bamako nasce qualche dubbio. Sparita quella lugubre indolenza in cui sentivi stagnare qualcosa di più minaccioso della collera, il ritorno dei militari è osannato dalle piazze e dai giovani di Paesi disperati dove le uniche prospettive sono farsi migranti, diventare jhadisti o essere uccisi. Sconcerto: l’esercito è ormai considerato l’unica struttura organizzata che offre possibilità di salvezza, portare la pace, combattere la corruzione, visto che le elites indigene, le borghesie parassitarie e complici che Parigi coccola e tiene in piedi, non si occupano che di riempire le tasche e considerano le elezioni solo il modo più facile per prolungare il potere e arricchirsi nella completa impunità. Quando i voti li ridimensionano ricorrono ai brogli.Servono, i golpe, almeno a spezzare, in questi immutevoli termini del mondo, il riconoscimento passivo che contro la realtà dell’ingiustizia non c’è nulla da fare. I militari sono quasi una classe sociale in Paesi decomposti dalla miseria, dalle guerre tribali e fanatiche, dalla immobilità del ladrocinio. Bisogna cominciare a leggerne le faglie, a distinguere i gruppi: generali e ufficiali medi, guardia presidenziale legata al Palazzo, reparti di élite più addestrati e moderni (spesso quelli che avviano i golpe), fanterie votate solo al saccheggio e alla sopravvivenza. Finora bastava una telefonata da Parigi perché sergenti analfabeti provvedessero a eliminare qualche presidente poco obbediente o che cianciava di indipendenza vera o rivoluzione. Erano un fattore essenziale del sottosviluppo coloniale. Ora osano chiedere che i francesi e i loro alleati occidentali impegnati nella interminabile guerra al terrorismo se ne vadano.Decifriamo per esempio il golpe più recente, quello in Burkina Faso. Nel 2015 un altro tentativo di colpo di Stato guidato da un ex presidente, Blaise Campaoré, fu sventato dalla mobilitazione dei giovani al grido di «vogliamo la democrazia». Sei anni dopo, quando i militari sono usciti dalle caserme e hanno arrestato il presidente Kaboré, un incapace che ha abbandonato il Paese nelle mani dei jihadisti, gli stessi giovani sono tornati in strada, ma questa volta per inneggiare ai golpisti al grido di «viva l’esercito».Esibivano oltre ai cartelli contro la presenza francese nel Sahel (c’è una base delle forze speciali vicino alla capitale) foto del giovane colonnello golpista Paul Henri Damiba, leggenda della guerra ai jihadisti, e di Sankara, l’eroe rivoluzionario ucciso nel 1987 da una congiura di palazzo.A scatenare la ribellione l’ennesimo scandalo sanguinoso, il massacro di Inata, nel Nord; cinquanta gendarmi uccisi dai jihadisti nella loro caserma. Erano inermi: da settimane non ricevevano rifornimenti, munizioni, viveri. Per nutrirsi davano la caccia nella «brousse» agli animali. I soldi necessari erano stati prosciugati, come sempre, dalla camarilla che è al potere. La vergogna ha scosso i militari e il Paese. Aveva ragione Marx: la vergogna è rivoluzionaria. In sei anni qui la offensiva jihadista ha fatto duemila morti e un milione di profughi.Lo stesso sostegno popolare a Bamako, in Mali, nell’agosto scorso ha salutato fragorosamente la caduta del presidente Keita e del suo regime alla deriva, e a Conakry in Guinea dove un colonnello ha licenziato il presidente Alpha Condè, uno specialista del truffaldino terzo mandato, ovvero del potere a vita. Ormai nell’Africa dell’Ovest si scommette se toccherà prima al Niger o alla Guinea Bissau.La guerra ai jihadisti è perduta. Si delineano i contorni vergognosi e allarmanti di un Afghanistan africano. Le popolazioni sono abbandonate a se stesse, alla loro miseria, alla furia dei fanatici che montano califfati di sabbia. Nell’Est del Burkina Faso, nel parco naturale di Arly dove un tempo i turisti ammiravano gli animali selvaggi, città e villaggi sono assediati dai jihadisti che danno ultimatum alla popolazione e organizzano posti di blocco per impedire il passaggio di cibo e medicinali, è vietato lavorare nei campi e chi non obbedisce è frustato e ucciso, 50 mila studenti non possono più andare a scuola, alcune comunità come a Naougou sono ormai città islamiche dove i miliziani gestiscono i negozi e applicano la sharia. Le popolazioni fuggono a piedi per giorni attraverso la savana, senza cibo, si ammonticchiano in slum di rifugiati senza che nessuno presti loro aiuto.Questo è il Sahelistan. Se non lo attraversi non puoi capire che cosa vi accade, la natura vi modella la Storia e gli uomini, aguzzini e vittime. L’Africa qui diventa tragica e spopolata, anche la bellezza è disumana. La roccia e la terra prendono colori esaltati, giallo ocra rosso nerastro. È il regno del minerale, del fossile, del preistorico. E del deserto rugginoso di cespugli, percorso dai mulinelli della polvere simili a spettri nella luce del giorno. E in fondo le distese delle città, caotiche, deperite, provvisorie, rotte, polipai di miseria, di notte diventano spugne nere imbevute di luci.La natura è assoluta, di uno splendore faticoso come la lotta per sopravvivere. Qui è una vita di labirinti, di sacche, di astronomiche distanze geografiche, etniche, morali. La predicazione jihadista vi è potente, resistente a ogni attacco, salda tra loro gli uomini più disparati. Diventa una specie di redenzione. Riconosciamolo: non siamo stati capaci di sondare gli abissi di questa massa fluttuante di uomini e di solitudini, presagirvi le frane. Abbiamo dato retta alle frondose retoriche della propaganda francese (la lotta al terrorismo, il sostegno fraterno...), alla sua minuta politicheria coloniale.Il Sahel sta cambiando sotto l’urto jihadista con una cadenza incalzante modificando finalmente vecchi equilibri. Nuovi concetti della vita, alcuni sì pericolosi e fanatici, nuovi interessi, nuove disperazioni e nuovi caratteri umani entrano sempre più nel gioco di questo spazio esaltato e brulicante. Irrompono nuovi attori, la Russia con i suoi mercenari che promettono sicurezza, la Cina, la Turchia, riprende sotto nuove spoglie il grande gioco dell’epoca della guerra fredda in Africa. E rinasce e si allarga la tentazione a giocare gli uni contro gli altri. La Francia è vecchia, anacronistica, colpevole.Solo i francesi continuano a illudersi che il destino di questi Paesi lo decida l’Eliseo. Ma restano soli. I danesi se ne vanno, gli svedesi si preparano a imitarli, i tedeschi riducono il contingente. Nove anni dopo l’avvio della guerra al terrorismo le zone controllate dai jihadisti si sono allargate, gli Stati si sono decomposti e cresce la rabbia contro la presenza occidentale, il bianco, il padrone. Un contingente di soldati italiani è in Niger: addestratori si spiega. Perché? —