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 2022  febbraio 07 Lunedì calendario

Recensione dello spettacolo teatrale M. Il figlio del secolo

Due anni di lavoro, sei mesi di preparazione, ottocento pagine di romanzo da concentrare in uno spettacolo teatrale, una rappresentazione di tre ore (tante), un arco storico di sei anni, dal 1919 al ’25, una messa in scena divisa in 31 quadri, diciotto attori sul palcoscenico che interpretano ottanta personaggi, una produzione imponente (cinquecentomila euro?), continui slittamenti causa pandemia, il debutto nell’anno esatto un secolo fa della marcia su Roma e soprattutto il racconto di come il figlio di un fabbro divenne il figlio del secolo. Da Dovia, frazione del comune di Predappio, a tutti i fascismi del mondo. Si narra di ieri, si parla dell’oggi. La Storia che diventa spettacolo, lo spettacolo che fa Storia. 
Benvenuti al Piccolo Teatro Strehler di Milano, dove fino al 26 febbraio e poi da dal 3 marzo al 3 aprile all’Argentina di Roma, va in scena l’opera teatrale M. Il figlio del secolo che Massimo Popolizio, che ne è regista e attore, ha montato smontando il romanzo omonimo di Antonio Scurati, del 2018, premio Strega e presto una serie tv.
«M» come Mussolini. «M» come Mistero (è davvero così semplice? Lui fu solo un abile domatore di circo e l’Italia solo un Paese di gattini ciechi?). E «M» come (post)modernità. Lo spettacolo sontuoso e sovrabbondante di Massimo Popolizio mettendo in scena la conquista del potere di Mussolini ci parla, ovviamente, dell’essenza dei Poteri. Il virus del fascismo lo conosciamo in troppe varianti, ed è difficile da debellare. Tagline dello spettacolo: «Forse il fascismo non è il virus che si propaga, ma il corpo che lo accoglie». Le metafore e le mascherine dalle foto dell’influenza spagnola proiettate sul palco alle FFP2 in platea, insopportabili si sprecano.
Lo spettacolo è imponente, i quadri – così come i capitoli del romanzo di Scurati – brevi e veloci, con molti dialoghi, i giusti monologhi, ma anche azione. Parlato e agito. Nel libro a fare da contrappunto ai fatti narrati erano documenti, giornali, lettere, discorsi pubblici; qui sono foto e filmati d’epoca, cartellonistica, musica (foxtrot, un tango, un valzer, indovinato anche il brano tecno...). E in entrambe le «M», sia quella letteraria sia quella teatrale, ad eccezione dell’apertura e della chiusura, dove Mussolini parla in prima persona, tutto il resto è scritto e recitato in terza persona.
Che poi. Di Duce ce ne sono due. Uno è lo stesso Popolizio, che da regista non resiste alla tentazione di attraversare appena può la scena, e del resto è stato un irresistibile Mussolini al cinema, nel film di Luca Miniero del 2018 Sono tornato. E l’altro è Tommaso Ragno (che a noi è sembrato magnifico). Il primo è l’anima istrionica, teatrale, mefistofelica e buffa di Benito. Il secondo è il personaggio storico Mussolini: disorientato, indeciso, maldestro, lucidissimo. Del resto, pochi hanno saputo capire gli italiani come lui.
A proposito. Deve essere chiaro. Lo ha romanzato molto bene Antonio Scurati e lo recita altrettanto bene Massimo Popolizio: il fascismo è stata la biografia dell’Italia, non una parentesi. 
Coraggiosa ibridazione fra letteratura, teatro e cinema (di sicuro sbagliamo, ma ci è sembrato di cogliere citazioni da Il conformista di Bernardo Bertolucci, da Novecento, dal Salò di Pasolini, perfino da Senso di Tinto Brass), lo spettacolo di Massimo Popolizio – con Ordine, Gerarchia, Disciplina – mette in sequenza fatti e personaggi del fascismo dalla fondazione dei Fasci di combattimento a Milano nel 1919 all’assunzione della responsabilità politica, morale, storica dell’omicidio Matteotti da parte di Mussolini: il sipario cala sulla Camera dei deputati il 3 gennaio 1925 quando riecheggia la fatidica frase: «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!».
Certo, poi, è un secolo che ci interroghiamo se il fascismo sia stato solo «olio di ricino e manganello» o anche «una passione superba della migliore gioventù italiana».
Nota a margine: la messa in scena di Popolizio tra sketch, avanspettacolo, dramma, commedia e cabaret – non è ideologica. È persino, come dire?, laica. Lascia a noi il giudizio da dare sui socialisti (ne escono a pezzi), sugli arditi e i futuristi, su D’Annunzio (troppo macchiettistico, e comunque a Fiume era all’apice della sua vita come opera d’arte, non il rottame che qui si trascina sul palco), sugli italiani (solo un pubblico ammaestrato?), e naturalmente sul Duce, in tutte le gradazioni della deplorazione. E però, per quanto riguarda la condanna tranchant del fascismo, come suggerisce a un certo punto uno dei personaggi: «Il quadro generale è più complesso».
Avanti! Cose che (per noi) non funzionano. Poche. Il senso che ti lascia l’intero racconto: con troppe «D», come Dux: didattico, didascalico, documentaristico. Ma forse il vizio è nel testo di Scurati: un manuale di storia del fascismo ad uso universitario, scritto meravigliosamente bene, ma un manuale. Poi il fatto che il finale dello spettacolo sia identico all’incipit (di solito significa: o che non c’è un’altra idea o che si vuole giocare facile). Ah, e Margherita Sarfatti: l’attrice, Sandra Toffolatti, è bravissima, ma farne la dea ex machina del successo di Mussolini è eccessivo.
Cose invece che (per noi) funzionano. Tante. Di Popolizio e Ragno, alter ego perfetti, si è detto: magnifici. Le scene mobili ideate da Marco Rossi: non era facile. I costumi di Gianluca Sbicca: frac, panciotti, ghette e bastoni; e giusta la decisione di non far vestire alla Storia abiti moderni. Lo storyteller Michele Nani, che saltella qua e là facendo la cronaca degli avvenimenti: alleggerisce i drammi, e qui sono tanti. Poi: la soluzione scenica della fangosa e bagnata marcia su Roma, con tanto di trenino. L’italianissimo, borghesissimo pranzo di Natale del 1920. La performance di Tommaso Cardarelli alias Nicola Bombacci. Ovviamente il personaggio, inevitabilmente romantico, di Matteotti interpretato da Raffaele Esposito (ma ci è persino piaciuto di più nei dieci secondi in cui fa Guido Keller). E abbiamo addirittura applaudito sui titoli di coda Bandiera Bianca di Franco Battiato. «Quante squallide figure che attraversano il Paese,/ com’è misera la vita negli abusi di potere». Purtroppo, però, il 1925 non è la fine di niente. Ma l’inizio di tutto.