Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  febbraio 07 Lunedì calendario

La Cina e lo sci

Yukiguni, il Paese delle Nevi è uno dei romanzi più belli e struggenti di Yasunari Kawabata, quello che probabilmente gli valse, nel 1968, il Premio Nobel per la Letteratura. Il primo assegnato ad uno scrittore giapponese, seguito poi solo da quello attribuito, molti anni dopo, a Kenzaburo Oe, nel 1994. Un romanzo drammatico e al tempo stesso delicato, una storia d’amore impossibile ambientata nella stazione termale di Yuzawa, nella regione di Yamagata, che per molti mesi l’anno è sepolta sotto la neve.
Quando si pensa all’Estremo Oriente, anzi, all’Asia Orientale, come si dice giustamente oggi, per evitare il solito, oramai obsoleto, eurocentrismo, pochi pensano alla neve. La neve e tutto l’indotto culturale, sportivo ed economico che la circonda è sempre stata considerata appannaggio dell’Europa ed in particolare dei Paesi alpini e, più recentemente, di Stati Uniti e Canada. Ma se dal punto di vista sportivo c’è ancora molta strada da percorrere (la prima e unica medaglia olimpica di un orientale nello sci alpino è stata la medaglia d’argento conquistata, tra lo stupore generale, dal mitico Chiharu Igaya nello slalom di Cortina d’Ampezzo, nel 1956) dal punto di vista della diffusione degli sport invernali l’oriente, Cina compresa, è più vicino di quanto si possa pensare. Oltre 5 mila km di piste, circa 3 mila impianti di risalita, un mercato in continua crescita. E se fino a qualche anno fa era soprattutto il Giappone ad avere sviluppato il mercato più fiorente (oltre 700 stazioni sciistiche, 20 milioni di sciatori, negli anni ’90) ora il fenomeno è diffuso un po’ dappertutto, dalla Cina alla Mongolia, alla Corea. Compresa quella del nord: a Masik Ryong, verso il confine con la Russia c’è infatti una stazione sciistica di tutto rispetto, creata in occasione delle Olimpiadi di Pyeongchang del 2018, quando sembrava che anche il nord potesse essere coinvolto nell’ospitare alcune gare. E altre sono in costruzione, sempre al confine con la Russia, in attesa che il paese riapra al turismo internazionale. Ma mentre in Giappone il mercato e l’interesse della gente, che vanno di paro passo è in costante calo da molti anni (oggi gli sciatori, per la maggior parte snowboardisti, sono meno di 3 milioni e più della metà delle stazioni sciistiche hanno chiuso) a stupirci sono i numeri cinesi. Ricordiamo tutti lo stupore, l’incredulità e anche i numerosi dubbi e perplessità che accompagnarono la decisione del Cio di assegnare i Giochi del 2022 alla Cina. Paese certamente senza una storia di sport invernali e che in questo modo è diventato l’unico Paese ad aver ospitato, nel giro di pochi anni, sia le Olimpiadi estive (2008) che quelle invernali. Ma la Cina ci ha abituato a grandi rincorse e a grandi risultati: quando si pone un obiettivo, in genere lo raggiunge, e anche in anticipo. Appena aggiudicati i Giochi, il governo di Pechino ha approvato un piano decennale, il cosiddetto Ice and Snow Sports Development Program che attraverso ingenti investimenti infrastrutturali (impianti, strutture ricettive, nuove tecnologie per l’innevamento artificiale) produzione di attrezzature e una martellante promozione sui media nazionali, si poneva l’obiettivo di mettere sugli sci o comunque far avvicinare agli sport invernali 300 milioni di persone. Obiettivo raggiunto, pare, visto che gli ultimi dati ufficiali parlano di quasi 350 milioni di praticanti e che in quasi tutte le scuole, comprese quelle delle zone più calde del Paese, dove la neve non cade mai, sono previsti programmi di settimane bianche e altre iniziative volte ad avvicinare i giovani agli sport invernali. Un fenomeno che avevamo cominciato a percepire con l’ennesima invasione: dopo i giapponesi, negli anni ’90, negli ultimi anni sia le nostre piste europee che quelle americane e perfino giapponesi avevano visto un aumento esponenziale di turisti cinesi. La pandemia ha interrotto questo flusso, ma non vi è alcun dubbio che è destinato a ripartire, appena si riapriranno le frontiere. Nel frattempo, occhi puntati sul medagliere di Pechino 2022. Dopo aver rischiato di superare, per la prima volta, la superpotenza Usa alle Olimpiadi estive di Tokyo, lo scorso agosto, la Cina non fa mistero di voler lasciare il segno anche in quelle invernali, dove finora non ha certo ottenuto grandi risultati: i1 medaglie, di cui 5 d’oro a Vancouver, nel 2010, 9 medaglie nel 2014 a Pyeongchang (Corea), di cui solo 1 d’oro, e altrettante ma 3 d’oro nell’ultima edizione di Sochi, in Russia, nel 2018. Per lasciare il segno la Cina si presenta con una squadra di 180 atleti, di cui 130 debuttanti, e per la prima volta parteciperà a tutte le 15 discipline olimpiche. Una curiosità: così come per è avvenuto in passato per altri sport (pensiamo al calcio, soprattutto) la Cina si è affidata ai tecnici esterni, per preparare i suoi atleti: su 78 allenatori, 51 sono infatti stranieri.