Corriere della Sera, 7 febbraio 2022
I libri che hanno rovinato Daria Bignardi
«Quando ho deciso di scrivere sui libri che mi hanno rovinato la vita pensavo fosse facile. L’idea mi è venuta il giorno in cui Carlo, mio buon amico, ha chiesto: “Perché non scrivi qualcosa di molto personale sui tuoi libri del cuore?” Ogni tanto me lo domandano, perché mi occupo di libri da sempre, ma è una domanda che mi imbarazza, come da bambino quando ti chiedono (un tempo, ora forse hanno smesso) se vuoi più bene alla mamma o al papà. Stavolta però ho avuto un’illuminazione. Ho pensato che anche se non potevo e non volevo scegliere tra i libri che ho amato, forse potevo e dovevo scrivere di quelli che mi avevano fatta soffrire, e che forse scrivendone avrei capito qualcosa di me, qualcosa che ho messo a fuoco da poco e che so essere importante».
Perché leggiamo? Per capire noi stessi, la vita? Chi legge tanto – chi «divora» libri – non se lo chiede: legge e basta, perché è il suo modo di stare al mondo. E se i libri avessero una parte, un ruolo attivo nel nostro modo non solo di vedere la vita ma di viverla? Se, insegnandoci a guardarla, ci spingessero anche a plasmarla, a farle prendere direzioni diverse? Scegliamo libri che ci fanno soffrire perché di natura tendiamo alla malinconia oppure è il caso a farci incontrare autori che ci educano alla sofferenza?
«Da bambina vivevo come uno scoiattolo: d’inverno uscivo solo per andare a scuola e d’estate scorrazzavo tutto il giorno nei boschi. Ma quando verso i dodici anni iniziai a leggere i romanzi degli adulti la mia vita cambiò». Daria Bignardi lo trova qui – nel passaggio dalle letture bambine, da quel Celestino tutto erba, farfalle e margherite ai romanzi «da grandi» – il primo nodo da sciogliere in quel gomitolo fatto di eventi, ricordi, cose lette, rilette e vissute che è la materia viva del suo libro-viaggio in uscita per Einaudi Stile libero domani. Si intitola Libri che mi hanno rovinato la vita e altri amori malinconici, si legge ancora in copertina, ma l’intreccio tra letture e vita è così potente per l’autrice e per qualsiasi altro, come lei, divoratore di libri che il resto passa in secondo piano).
Non è facile classificarlo: un diario – procede per mesi, lungo tutto un anno —, un memoir, uno scavo nella memoria e nella psiche. Un atto d’amore verso i libri di sicuro, anche (soprattutto) quelli che ti costringono a bagnarti nel fiume della sofferenza. A farci i conti.
Arrivata al suo ottavo titolo (ha esordito nel 2009 con Non vi lascerò orfani), Daria Bignardi si ferma a riflettere sulla scrittura – la sua, quella degli altri – e su come questa si impasti con il destino. A volte con coincidenze che sembrano magiche, più spesso perché nelle parole degli autori che amiamo troviamo quello che siamo: è un riconoscersi più che un presagio.
Nello scorrere dei mesi, Bignardi procede per incastri, rimandi, libere associazioni come nella teoria del seguire le api di Annie Dillard, che cita: «Ape dopo ape, sarai condotto verso il miele, finché non vedrai l’ultimo insetto entrare nell’albero giusto. Thoreau descrive questo processo nei suoi diari. Un libro guida il suo scrittore nello stesso modo». Qui le api da seguire sono i libri, e ognuno porta all’altro tirando fuori idee, persone, luoghi lontani tra di loro nel tempo e nello spazio, eppure stranamente affini. Viaggiando tra le letture dell’autrice – ragazzina nella sua stanza della casa di famiglia, poi universitaria tentata dal dark, provinciale e globale, londinese, milanese, figlia, madre, giornalista, scrittrice – i suoi incontri diventano i nostri: citazioni che graffiano, autori tremendamente vivi anche se (alcuni) dimenticati da tempo.
Li vediamo uscire fuori dalle fotografie, dalle vecchie edizioni cercate perse ritrovate, dalle copertine che colpiscono occhi giovanissimi con suggestioni indelebili. Anche quando la memoria rimescola, inganna: «Ho inventato un ricordo. Ero convinta che il mio primo amore tormentato fosse stato per un cupo romanzo di Djuna Barnes intitolato La foresta della notte. Ero sicura fino a ieri mattina di averlo letto a tredici anni e che in copertina ci fosse l’immagine di una donna che fumava». Non importa se quell’edizione, con la donna che fuma in copertina, è uscita troppo tardi per essere stata sotto gli occhi della Daria bambina: nella testa di chi ricorda lei è lì, «un’intellettuale sofisticata, colta, dissipata e nevrotica – così la vedevo. La sua trasgressiva vita notturna e i salotti letterari della Parigi degli anni Venti sembravano, dalla mia cameretta di Ferrara, il paradiso».
Di quelli che cita, incontra, passa, tre sono i libri fondanti dell’educazione alla sofferenza letteraria: oltre a Djuna Barnes, il Demone meschino di Fëdor Sologub e Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche. Su questi, edifica il suo credo doloroso eppure capace di grandi aperture: sull’amore, la vita. Poi, gli altri autori: tanti, laterali, irrequieti. Insieme ti aspetti prima o poi di vederli a una festa anni Venti, come quelle di Midnight in Paris, il film di Woody Allen del 2011: anticonformisti, brillanti, capaci di tagliare la vita con frasi che fanno male ma te la spiegano. Libri, film, poesie. Alcuni non restano: quelli che in altre età abbiamo respirato e ci hanno colpito ora possono smettere di parlarci, sembrarci enfatici, muti. «Ma ormai», scrive l’autrice, «ho capito che i libri – a parte i classici che se ne stanno immoti e gloriosi là sulle vette e da qualunque parte li guardi e in qualunque periodo li leggi mostrano sempre la loro immortale grandezza – ci toccano più o meno profondamente a seconda delle congiunzioni di pianeti nel nostro firmamento psichico del momento in cui li leggiamo». Ma ci saranno sempre momenti, e libri.