La Stampa, 7 febbraio 2022
Un anno di Draghi
roma
In una politica che oramai da anni ruminava il prevedibile, tutto ebbe inizio con un colpo di scena e non per modo di dire. Era il 2 febbraio del 2021, il Capo dello Stato uscì dal suo studio e annunciò che considerava esaurito il faticoso tentativo di Giuseppe Conte di mettere in piedi il suo terzo governo e qualche minuto più tardi fece sapere di avere convocato per l’indomani mattina al Quirinale Mario Draghi. Seguì il silenzio. Un irrituale blackout da parte dei logorroici leader di partito, di solito prontissimi a digitare in pochi attimi commenti anche su eventi irrilevanti. Pensavano tutti di avere ancora qualche giorno per i loro palleggi e invece furono spiazzati sia dalla rapidità del contropiede di Sergio Mattarella, ma anche dalla qualità del presidente incaricato.
Quella sera i leader che dominano la scena mediatica sino ad esserne spesso dominati capiscono subito di trovarsi davanti ad un personaggio molto diverso da loro: Mario Draghi non è soltanto un “marziano”. È anche e soprattutto un commissario. Il 13 febbraio il nuovo presidente del Consiglio e i suoi ministri giurano davanti al Capo dello Stato: da quel momento ha inizio un anno nel corso del quale il governo, circondato spesso da applausi acritici, riesce a vincere le battaglie per le quali è stato ingaggiato: il Pil italiano a fine anno è cresciuto del 6,5%; la campagna di vaccinazione si è dimostrata efficace; il Pnrr, che prima di Draghi era privo di cronoprogramma e di riforme strutturali, ha fatto i suoi primi, decisivi passi. E infatti, a coronamento di dieci mesi vissuti di corsa, il 19 dicembre l’Economist attribuisce all’Italia il “titolo” di «Paese dell’anno». Per Draghi una ragione di più per lasciare trasparire, lui uomo così chirurgico nelle parole, un interesse “all’ascesa” verso il Quirinale.
Le cose, come si sa, sono andate in modo diverso dai desideri di Mario Draghi che ora però non ha alcuna intenzione di trasformare questo momentaneo ridimensionamento in un downgrading: la storia di un anno vissuto di corsa a palazzo Chigi contiene, almeno in parte, alcuni indizi che parlano anche del futuro del governo.
Nei giorni che precedono il giuramento, Draghi si muove in strettissima intesa col Quirinale e questo resterà l’asse fondamentale della sua presidenza. Lo è da subito sia nella scelta dei due principali collaboratori, il sottosegretario alla Presidenza Roberto Garofoli e il capo di gabinetto Antonio Funiciello, ma anche in quella dei ministri, a cominciare dal responsabile della Difesa Lorenzo Guerini e anche in quella di alcuni ministri del centro-destra. Per un mese, ecco il primo dato anomalo, Mario Draghi non parla. Seconda peculiarità: l’ex presidente della Bce assume una quantità di decisioni operative che ne denotano una vocazione fortemente decisionista che curiosamente non viene evidenziata dai suoi non pochi apologeti.
In pochi giorni destruttura la squadra operativa sul fronte Covid del governo Conte: a metà febbraio senza darne notizia, chiede al ministro Guerini di trovare il generale più capace nella logistica, il 26 febbraio nomina Fabrizio Curcio capo della Protezione civile, tre giorni dopo nomina Francesco Paolo Figliuolo Commissario straordinario all’emergenza Covid, al posto di Domenico Arcuri, il 17 marzo ridisegna il Comitato tecnico scientifico e chiede, in questo caso riservatamene, al professor Silvio Brusaferro e al professor Franco Locatelli di diventare gli unici “portavoce” sulla vicenda Covid. Il 12 marzo, dopo ben 29 giorni di silenzio, visitando l’hub vaccinale all’Aeroporto di Fiumicino, Draghi tiene la sua prima conferenza stampa.
Nei giorni successivi ammiratori e detrattori convergono: lo stile sobrio e l’argomentare chiaro non sembrano scivolare nel «conversazionalismo», quell’avvicinamento del leader all’uomo comune con “umanizzazioni” simpatiche ed esibite. Poi Draghi ci prenderà gusto e assieme alla conferenze stampa si intensificheranno anche le civetterie, come lo stupirsi per le parole in inglese dei suoi discorsi, quasi fossero planate da un pianeta ostile. Nella memorabile estate dello sport italiano, quella che va dagli Europei di calcio alle Olimpiadi, i celebratori di Draghi arriveranno a stabilire un nesso diretto tra le vittorie e la “nuova Italia”, ma il presidente del Consiglio asseconderà l’onda, aprendo con una frequenza senza precedenti le porte di palazzo Chigi ai campioni.
Assieme alle gratificazioni da parte dei più grandi leader internazionali, culminate nel G20 di Roma, la fatica nel tenere i rapporti con i partiti. Un anno di ricorrenti tensioni ma senza rotture. Hanno fatto notizia, più di una volta, i dissapori con la Lega e indubbiamente Draghi ha dovuto penare con i ministri di Salvini il 19 marzo per il ritardo di alcune ore del Consiglio dei ministri chiamato a deliberare sulle cartelle esattoriali; il 5 agosto sul Green pass; quattro giorni fa sulla quarantena nelle scuole.
Ma l’unica volta che Draghi è stato visto alterarsi nelle segrete stanze è stato in occasione dell’impuntatura dei Cinque stelle sull’ecobonus. Il 22 dicembre Draghi è stato sferzante come mai lo era stato in un anno: «Questa misura ha incentivato moltissime frodi e oggi un’unità di efficientamento energetico costa molto più di prima». Ma tre giorni fa Giuseppe Conte, quando ha lasciato lo studio giallo di Draghi, ha rassicurato il capo del governo: «Siamo d’accordo su tutto».