La Lettura, 6 febbraio 2022
Su "Fuoco e ghiaccio. Poesie" di Robert Frost (Adelphi)
La poesia di Robert Frost possiede una prerogativa invidiabile, che davvero è privilegio di pochissimi poeti, tanto più in un secolo specializzato in senso letterario come il Novecento. Per essere apprezzata e fatta propria non richiede infatti chissà quale cultura poetica. Eppure non si tratta di una poesia semplice, tutta risolta nella propria lettera. Frost è anzi uno dei poeti più sfuggenti che sia dato conoscere. Nella poesia si cerca sempre la fisionomia ultima dell’uomo o della donna che stanno dietro alle parole, ma quanto all’esplicito e comunicativo Frost, quella verità non si sa proprio dove stia, come se l’intento del poeta fosse stato anzitutto di non farsi prendere con la mani nel sacco.
Trascorse l’infanzia a San Francisco, dov’era nato nel 1874, ma passò poi a vivere nel New England dopo la morte del padre. Nel 1912 si trasferì in Inghilterra, dove strinse amicizia tra gli altri con Edward Thomas ed Ezra Pound, e dove l’anno dopo licenziò la sua prima raccolta di poesie. Rientrato negli Usa fece uscire nel 1914 il suo secondo libro di versi, A nord di Boston, che lo rese famoso. Da quel momento riconoscimenti, onori e celebrità non smisero di crescere, tanto più nel secondo dopoguerra, raggiungendo il culmine quando il poeta fu invitato a leggere una poesia per l’insediamento di John Fitzgerald Kennedy alla Casa Bianca nel ’61. Morì poco dopo, nel ’63, a 88 anni, con la fama ormai consolidata di poeta nazionale, se un altro poteva esserci dopo il grande padre Walt Whitman.
Popolarissimo negli Stati Uniti, Frost è a tutt’oggi non molto conosciuto in Italia. Non quanto meriterebbe, almeno. Tra le pochissime sue traduzioni spicca comunque quella di Giovanni Giudici, che ha costituito il tramite dell’ingresso di Frost nella cultura italiana: Conoscenza della notte e altre poesie, pubblicata nel 1965 ma poi rivista in seguito, anche con l’assistenza di Massimo Bacigalupo. A questa ormai storica traduzione se ne affianca adesso una nuova, in occasione dell’uscita di un ampio volume antologico: Fuoco e ghiaccio (Adelphi), tradotto da Silvia Bre e curato da Ottavio Fatica. Come sempre ci vorranno anni per valutare a pieno la qualità e la tenuta di questa traduzione, che a tutta prima sembra comunque eccellente: per la tenuta ritmica e sonora (il «senso del suono», detto con le sue stesse parole, era a tutti gli effetti determinante per il poeta americano), per l’incisività del discorso poetico, per la pregnanza semantica e il complessivo equilibrio formale.
A differenza di altri grandi americani del secolo passato — Ezra Pound, William Carlos Williams o Wallace Stevens, ad esempio — Frost, si diceva, non è un poeta che richieda la patente di competenza poetica per essere avvicinato. E questo, va detto, non lo rende solo straordinariamente affascinante, ma anche impagabile, perché è attraverso poeti di questa natura che la poesia viene ricondotta ogni volta alla sua più elementare necessità, che è quella di cantare e chiarificare, nel bene e nel male, la vita. Ecco subito, allora, uno di quei passaggi che il lettore è praticamente costretto a misurare su sé stesso e sulla propria esperienza, e dunque a portare per sempre con sé: «Questo racconterò con un sospiro/ chissà quando da una distanza immensa:/ due strade divergevano in un bosco/ e io — io ho preso quella meno battuta/ e questo ha fatto tutta la differenza».
In fondo questa semplicità è la cosa più difficile da ottenere: un uomo che parla di ciò che ha capito ma anche non capito della sua vita e della vita in genere, cercando prima di tutto di non barare, di dire la verità nel modo più efficace e plausibile. I lettori più autorevoli del poeta — tra gli altri Wystan Hugh Auden e Josif Brodskij — hanno molto insistito sul suo impiego di una lingua comune e sostanzialmente colloquiale, sia nei tanti poemetti costruiti come dialoghi drammatici (Frost è un formidabile compositore di ecloghe), sia nelle poesie liriche; ma anche sulla sua maestria nell’intrecciarla, come se niente fosse, con le opportunità e i vincoli, visto che si tratta di un poeta metrico, imposti dalle strofe e dalla misura del verso. «L’intonazione di Frost — ha scritto proprio Auden, — è quella di un uomo che parla a sé stesso, che pensa ad alta voce quasi ignorando la presenza di un pubblico».
È proprio quest’intimità, questa consuetudine del pensiero nel parlare con sé stesso, a rendere la poesia di Frost così familiare. Eppure è anzitutto uno scrittore del perturbante, della vita sentita come paura e come dolore; un poeta sempre perplesso e consapevolmente in difetto nei confronti del mistero primo e ultimo dell’esistere: i boschi oscuri del New England, il tremore di fronte alla natura, l’attrazione-repulsione per l’ombra, la notte, il buio, l’inverno; e insieme i più elementari e contraddittori sentimenti umani, il continuo stazionare sempre sul limite tra possesso e perdita, tra interiorità e mondo esterno, ma anche tra le diverse parti e voci che costituiscono ciascuno di noi.
Frost è un poeta rurale, vale a dire della terra: basico, ma tutt’altro che idillico e rassicurante. La sua saggezza, non a caso, è anzitutto quella di chi si riconosce vinto dall’alterità irriducibile di ciò che è. Sapeva bene, allora, che la parola non è la cosa, e che pertanto quest’ultima resterà sempre chiusa nel suo segreto. Proprio per questo si è affidato così tanto alla concretezza delle percezioni e del sentire, al primato delle immagini e, come detto, al senso del suono, come se non esistesse comunque, in tanta inadempienza, una possibilità d’espressione più affidabile. «La poesia offre il solo modo ammissibile di dire una cosa e intenderne un’altra», ha scritto infatti il più diretto, o forse invece indiretto, dei poeti.