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 2022  gennaio 11 Martedì calendario

Biografia di Liliana Cavani

Liliana Cavani, nata a Carpi (Modena) il 12 gennaio 1933 (89 anni). Regista. Sceneggiatrice. «Nessuno mi ha mai detto: “Non puoi fare questo perché sei una donna”. Casomai non mi hanno aperto la porta: ma me la sono aperta da sola» (a Paola Casella) • «Da che famiglia proviene Liliana Cavani? “Da un contesto piccolo-borghese. […] Mio nonno e […] mia nonna si sposarono in municipio nel 1917. Lui era un sindacalista socialista, che di Carpi, prima che il Duce cambiasse l’orizzonte al Paese, sarebbe dovuto diventare sindaco”. Dei suoi genitori che memorie ha conservato? “Mi misero al mondo da giovanissimi. Avevano entrambi poco più di diciott’anni. Mio padre Ugo lasciò mia madre per un’altra donna. E da allora lo vidi poco o nulla”» (Malcom Pagani). «Lei non ha il cognome di suo padre. “Non l’ho mai voluto. Si era fatto vivo tardi, e io ho voluto a quel punto tenere il cognome della famiglia di mia madre”» (Cristiana di San Marzano). «Papà era un architetto urbanista. Lavorava spesso all’estero. Passò un lungo periodo in Iraq, almeno fino a quando ci furono gli inglesi. Ricordo che ogni tanto andavo a trovarlo a Roma. Non c’era un gran rapporto con lui. Non si era comportato bene con mia madre. E quando volle regalarmi la sua cinepresa rifiutai. Non desideravo nulla da lui. Volevo solo percorrere la mia strada» (ad Antonio Gnoli). «Sono cresciuta con i nonni e gli zii, in modo laico e libertario. La passione per la politica, il gusto per la ribellione, li ho respirati in quella famiglia della Romagna di una volta. […] Mio nonno, tra una boccata e l’altra di toscano, ogni tanto mormorava convinto “Eppur si muove”. Una frase che mi tornò buona quando girai Galileo. Suggerii a chi lo interpretava di avere, al momento dell’abiura, quell’espressione di certezza» (a Giuseppina Manin). «Da bambina ho visto una mattina nella piazza del mio paese un gruppo di morti, 16 partigiani uccisi per rappresaglia, e intorno trattenute dai repubblichini con un mitra in mano c’erano tante donne che piangevano e gridavano e chiamavano i figli o i mariti o i fratelli, ma non le lasciavano avvicinare ai corpi. Una scena scioccante, che cercai di dimenticare in un cantuccio della psiche finché un giorno nel 1969 girando a Milano I cannibali […] mi arrivò nella mente la piazza del mio paese con quei corpi in terra che era proibito toccare: la scena era molto simile a quella che allestivo» (a Paolo Conti). «Mia madre era un’accanita appassionata del grande schermo: non c’era film appena uscito che non volesse correre a vedere. E, sin da quando ero piccolissima, mi portava con lei nelle sale, ma mi suggeriva di dire che andavamo ai giardinetti: a casa non dovevo rivelare il nostro segreto, e io lo mantenevo gelosamente. Ma non solo: molto spesso venivo depositata al cinema, la sala Lux di Carpi, […] all’orario dell’apertura, alle due del pomeriggio, e lasciata lì dentro fino alle sette di sera. I miei ricordi risalgono grosso modo all’età di 4 o 5 anni: un film che mi aveva colpito era La corona di ferro, non so quante volte l’ho visto» (a Emilia Costantini). «Non sono stata un’alunna modello. Ho cominciato male: alle elementari a Carpi […] finivo spesso in castigo. Tutto è cambiato al liceo, a Modena. Ottima scuola, professori che mi hanno fatta innamorare di greco, latino, filosofia. E poi Lettere antiche a Bologna: avrei voluto fare Archeologia, ma non conoscendo il tedesco… Mi laureai in Filologia linguistica, tesi sul dialetto della mia regione». «Da ragazza mi sono tradotta l’Iliade da sola per passione, poi sono andata all’esame che leggevo il greco come il giornale». «“Il cinema, lo incontrai per la prima volta a Bologna. Proiettavano film che a Carpi non sarebbero passati neanche per sbaglio. A Bologna con altri due studenti universitari fondammo un cineclub. Affittavamo i film da agenzie specializzate e, non si sa come, la gente pagava l’ingresso, riempiendo di fumo e discussioni la saletta. Abbuffate di Bergman e Dreyer”. Pilastri della sua formazione? “Il mio preferito resta De Sica. Ne L’oro di Napoli c’è l’Italia. […] Per il resto, non ero niente. Non avevo nessuna particolare formazione. E proprio per questo motivo ho potuto plasmare la mia in assoluta libertà. Sono stata molto fortunata. Ho incontrato gente in gambissima. Persone moderne, originali, il più delle volte matte da legare”. C’erano anche al Centro sperimentale di cinematografia? “Lessi il bando di concorso. Per affrontare l’esame, a settembre, serviva la laurea. Così mi sbrigai, e chiusi l’Università in giugno in modo un po’ comico. Solo dopo mi resi conto che le regole erano stabilite alla ‘romana’, e la laurea non serviva affatto. Ormai ero dentro. Unica donna. Quattro italiani in tutto. Molti uditori provenienti dall’estero. […] Trovarsi insieme era bello”» (Pagani). «Per il suo primo cortometraggio, La battaglia, riceve il Ciak d’oro di fine accademia» (Manuela Caserta). «Per riuscire a lavorare lei dovette affrontare un mitologico concorsone Rai. “Undicimila partecipanti in tutta Italia, 30 posti in tutto. Una roulette russa. […] Ci ritrovammo in migliaia al Palazzo dei Congressi di Roma. Tre tram per arrivare, una certa disillusione sull’esito finale. Per miracolo, come tema d’esame, uscì il teatro di Goethe. Annoiandomi mortalmente, avevo letto un saggio della Bur sullo stesso argomento, comprato da una bancarella poco tempo prima. Non avrei mai pensato mi servisse, e invece accadde”» (Pagani). «Vinsi, ma rifiutai l’assunzione come funzionario. Non avrei mai potuto passare la vita alla scrivania. In cambio, ottenni di poter girare dei documentari». «“Lavorai sulla Resistenza, sulle donne. […] Lavorai su Stalin e sul Terzo Reich. Andai a Tubinga nel ’65. Le persone facevano finta di non ricordarsi di Hitler. Forse provocavano. A me sembravano soltanto degli stronzi. Quel lungo lavoro sul nazismo, a tratti sconvolgente, a contatto con gli archivi del Congresso americano sulle atrocità delle SS inconsciamente indirizzò il mio mestiere in una precisa direzione”. Quale? “Non quella del racconto purché sia, ma quella della ricerca. Della curiosità. Del disvelamento dei nessi alla base di una tragedia”» (Pagani). «“Poi mi capita in mano un […] libro, la Vita di san Francesco di Paul Sabatier, storico eretico messo all’indice dalla Chiesa. Vado da Angelo Guglielmi, gli dico che voglio farne un film. L’idea gli piace. […] Partii per l’Umbria, cinepresa a mano, troupe di 7-8 persone, ma con un gigante delle luci come Domizio Ercolani. Abbiamo girato in povertà davvero francescana. Costo totale 30 milioni”. Soldi ben spesi: il film andò dritto alla Mostra di Venezia. “Era il ’66, Rossellini vi portava La presa del potere da parte di Luigi XIV. I critici decisero che il suo e il mio erano i due film più belli della Mostra. Ci intervistarono insieme come il maestro e l’allieva. Alloggiavo al Des Bains, mi sentivo chissà chi… […] Non piacque che a interpretarlo fosse Lou Castel, reduce dai Pugni in tasca di Bellocchio, dove faceva fuori tutta la famiglia. Ci fu un’interpellanza parlamentare: il patrono d’Italia non poteva avere quella faccia. Ma io volevo raccontare un ribelle, mica un santino”. […] Trasmesso in due puntate, Francesco fu visto da oltre 20 milioni di spettatori. “La prima mini-serie Rai! Un successo che mi permise di andare avanti nella mia indagine, di girare un secondo (con Mickey Rourke) e poi un terzo film, sempre su Francesco”» (Manin). «Lei nel ’68 era a Venezia con il Galileo. “Si metta nei miei panni: alla Mostra c’era tutto il movimento della sinistra della quale facevo parte, e contemporaneamente in Cecoslovacchia i carri armati sovietici avevano posto fine alla Primavera di Praga. Io dicevo ‘Andiamo là a dare una mano, che stiamo a fare qua?’, ma avevo tutti contro, perché non appartenevo a una sinistra organizzata: ero per la libertà e avevo un istinto democratico. Così mi sono fatta un sacco di nemici”. Qualcuno per protesta voleva togliere i film dalla Mostra. “E invece io ho detto: ‘Il mio Galileo, lo lascio’. Ma purtroppo è stato subito censurato, e la Rai non l’ha mai trasmesso. L’ha comprato Berlusconi tanti anni dopo, per Mediaset, ma non l’hanno mai trasmesso neanche loro”» (Casella). In I cannibali, invece, ispirandosi liberamente all’Antigone di Sofocle, rappresentò la violenza della polizia «contro manifestanti oppositori delle delibere incivili. Il film fu mostrato a Cannes, e Susan Sontag lo scelse per il Festival di New York (1970). Ebbe molto successo nella platea del Lincoln Center: fu applauditissimo. La Paramount propose di distribuirlo, ma avrei dovuto cambiare il finale, “only five minutes”. In quei cinque minuti Antigone veniva ammazzata in una piazza da una decina di spari della polizia. E il film finisce così. Non ho accettato, e il film non circolò negli Usa» (a Gaetana Marrone). «Attraverso il viaggio immaginario di uno studente di oggi interessato alla spiritualità orientale, Milarepa (1973), […] liberamente ispirato a Vita di Milarepa, un classico della letteratura tibetana, […] ricostruisce la vicenda di un contadino nepalese dell’undicesimo secolo alla ricerca di un maestro che lo avvii sulla strada della saggezza» (Orio Caldiron). Nel 1974 il grande scandalo (soprattutto in Italia) e il grande successo (principalmente all’estero): Il portiere di notte. «“Il tema, una donna scampata a un lager che ritrova il suo aguzzino e inizia con lui un rapporto sado-maso, era disturbante. Ma lo spunto era reale. Anni prima una signora della Milano borghese sopravvissuta ad Auschwitz mi aveva confidato di una relazione oscura nata lì, che le aveva permesso di salvare la vita ma l’aveva lasciata morta dentro. Il portiere è nato così. Da quel legame melmoso vittima-carnefice, metafora di tanti conflitti irrisolti. Dirk Bogarde e Charlotte Rampling hanno saputo interpretarlo con la dolorosa ambiguità necessaria”. […] All’estero si accesero dibattiti sul nazismo sommerso, in Italia la censura vide il sesso… “Fu ritirato tre volte. Poi vietato ai minori di 18 anni. Quando chiesi a uno della commissione di censura il perché di quel divieto, mi rispose: ‘Perché c’è una scena erotica dove la donna sta sopra l’uomo’. Restai di stucco. Trovai solo la forza di mormorare: ‘Beh, càpita’”» (Manin). «Negli anni successivi lo “scandalo Cavani” prosegue con Al di là del bene e del male (1977) e Interno berlinese (1985), che formano con Il portiere di notte una sorta di trilogia tedesca. […] Sottovalutato all’epoca da una parte della critica ma premiato al box office, La pelle (1981) è un film di grande suggestione che sfronda abilmente il romanzo malapartiano […] per puntare sull’affresco della Napoli del ’43 liberata dagli americani della Quinta Armata, […] sottolineando energicamente come la guerra abbrutisca vincitori e vinti e travolga gli uni e gli altri in un’oscena escalation. […] Subito dopo Francesco (1989), in cui l’interpretazione atletica di Mickey Rourke ha fatto parlare di una rivisitazione caravaggesca del ribelle di Assisi, Il gioco di Ripley (2002) è per ora l’ultimo approdo cinematografico prima del recente ritorno alla tv» (Caldiron). «Nonostante le battaglie contro le censure, la regista è ancora innamorata della Rai: “Ha salvato, con la fiction, migliaia di lavoratori del cinema destinati alla disoccupazione. Fu proprio il consiglio d’amministrazione delle donne, quello guidato da Enzo Siciliano all’epoca del governo Prodi-Veltroni in cui entrai con Fiorenza Mursia e Federica Olivares, a invertire la tendenza degli acquisti dei film e telefilm dall’estero. Se oggi la Rai è un grande produttore e un grande distributore di prodotti italiani, lo si deve al nostro lavoro di allora”» (Barbara Palombelli). La stessa Cavani in seguito è tornata a collaborare con la Rai, dirigendo miniserie dedicate ad Acide De Gasperi (De Gasperi, l’uomo della speranza, 2005), ad Albert Einstein (Einstein, 2008), al tema della violenza sulle donne (Mai per amore, 2012) e, ancora, a san Francesco d’Assisi (Francesco, 2014). «Aldo Grasso sul Corriere ha scritto che Francesco è l’ossessione della Cavani. “Che vorrà mai dire con ossessione? È un percorso. Perché un solo viaggio in certi posti non è sufficiente. […] Francesco, lo si sta scoprendo solo da qualche tempo: è stato il rivoluzionario più totale. Mentre il comunismo ha vantato l’uguaglianza, lui ha vantato la fratellanza, che è tutt’altra cosa, un’altra visione sulla natura del mondo. Non siamo uguali, ma possiamo essere fratelli. Un concetto di una modernità incredibile”» (San Marzano). «Il progetto che prepara al cinema […] è […] un film con Carlo Rovelli basato sul libro L’ordine del tempo. “Il tema è la Terra, una situazione in cui può ritrovarsi il genere umano. L’epidemia è la prova che siamo figli tutti della Terra: nessuno può pensarsi isolato. Dovrebbe essere una lezione, per noi che negli ultimi anni ci siamo riempiti di bombe all’idrogeno”» (Arianna Finos) • Varie esperienze anche come regista teatrale, soprattutto d’opera (dal Wozzeck di Alban Berg al Teatro Comunale di Firenze nel 1979 alla Traviata di Giuseppe Verdi al Teatro alla Scala di Milano nel 2019), ma anche di prosa (Filumena Marturano di Eduardo De Filippo nel 2017 e Il piacere dell’onestà di Luigi Pirandello nel 2018, entrambi al Teatro Quirino di Roma). «Il teatro è un mondo duro, faticoso, ma mi affascina» • Nubile, senza figli. «Non ho mai sentito il bisogno di crearmi una mia famiglia: marito, figli… Non ho mai avvertito il desiderio di diventare madre, perché ho vissuto sempre da figlia, o da nipote» • «Da cosa nasce questa sua curiosità per le religioni? “Sono cresciuta in una famiglia molto laica, direi atea. […] Però non erano mangiapreti: avevano una mentalità tollerante, un’aspirazione profonda per una società giusta e libera. Non c’era odio: era contemplato che l’educazione fosse il frutto di una scelta in libertà con fondamentali di rispetto reciproco per tutti. Anche i cattolici dalle nostre parti sono stati galantuomini, più civili della media. Questo mi ha impedito di essere schierata poi come tanti miei colleghi. E per questo, forse, […] non ero appoggiata mai da nessuno”» (San Marzano). «La morte non esiste, lo dico seriamente. Ne convengono tutte le religioni. D’accordo con la scienza, bisogna ammettere delle trasformazioni sulle quali però siamo ancora troppo ignoranti. Dio è vita comunque. I Vangeli sono un testo serio. E la speranza è la virtù più civile che ci sia. Se non ci fosse nella specie umana questa virtù, i manicomi e le prigioni avrebbero avuto tanti e tanti ospiti di più». «Credo nel bene malgrado tutto» • «Sono una persona libera, non inquadrata. Mi hanno affibbiato tutte le etichette possibili, forse sono soltanto una non agguantabile, non classificabile. Mi hanno censurata e condannato, negli anni, tanto le destre legate a strane associazioni di famiglie cattoliche, quanto le sinistre ortodosse, i benpensanti del Pci che mi stroncavano sull’Unità o su Paese Sera». Tra fine 2006 e inizio 2007 partecipò comunque alla stesura del Manifesto del Partito democratico • «Fosse per me, in Italia farei solo scuole. Scuole, scuole, scuole… Il bene primario, ma da noi nessuno se ne occupa. Se si vuol far crescere un Paese, è lì che bisogna investire. Il sapere è l’unica garanzia di progresso, civiltà, benessere. Altrimenti vinceranno “gli altri”, quelli che ragionano non con la testa ma con le armi» • «È timida Liliana Cavani. Così a me appare. Di quella timidezza un po’ aspra e sospettosa, capace di improvvise aperture» (Gnoli). «Quando soffro ho l’herpes e l’ulcera, che mi sono venuti insieme a 16 anni. Soffrivo più di quanto sapessi il rapporto con mio padre. Somatizzavo come poi ho sempre fatto, come del resto capita a tutti. Non c’è l’anima e il corpo. C’è il corpo, che è anche anima. […] Io sono ingenua. Mia madre mi ha sempre detto che lo ero troppo, mi metteva in guardia. Invece avere fiducia non guasta. Certo prendi delusioni, ma io ho incontrato tante persone valide, intelligenti. Se sospetti sempre, se hai paura della delusione, poi non fai mai niente» • «I vizi di un tempo lontano: “Ho fumacchiato, ero una patita della vodka, ho viaggiato molto, non sempre con costrutto”» (Pagani) • «Autrice di lucida intelligenza e di appassionata ricerca culturale. […] Il cinema di Liliana Cavani appartiene alla grande stagione italiana che, dopo la crisi del neorealismo, allarga lo sguardo per andare oltre la superficie immediata del visibile attraverso la metafora, il simbolo, il sogno» (Caldiron). «Il suo cinema […] è un distillato di rigore, di sensualità, di tormento. Come se l’occhio della macchina da presa venisse attratto dalle zone meno prevedibili dell’esistenza umana, le più ardue e instabili» (Gnoli) • «Io non so fare film comici, però mi piacciono» • «Mi è accaduto di sbagliare attore, ma non l’ho mai confessato neanche al diretto interessato. Ci sono cose che non vanno raccontate. Segreti che è meglio custodire» • «Cosa è stato il cinema per lei? “Una passione e una salvezza. Lavorare con una troupe è difficile, ma trovi sempre gente animata dal desiderio. Il cinema salva dal pessimismo”. […] Il cinema italiano di oggi? “Mah, mi pare che si occupi solo di mafia: film, serie tv traboccanti di malavitosi violenti, volgari… Dicono che è denuncia. A me sembrano solo pessimi modelli da proporre ai giovani. Sono così contraria a questo genere di film che, pur amandolo moltissimo come attore, non ho perdonato a Brando di aver offerto il suo talento al Padrino”» (Manin). «I miei film esprimono quello che io sono in ogni scena, in quella storia, in quegli attori, fino al ritmo del montaggio e alla colonna sonora. E così fin dal primo film […] cercavo di dare della risposte alle mie curiosità, alle mie domande interiori» • «Pensa mai alla morte? “Ci penso, certo. […] La morte per me sono gli amici perduti, ma nella quotidianità prevale l’allegria. La voglia d’avventura. Quella non passa. Non passa mai”» (Pagani).