La Stampa, 6 febbraio 2022
Il reporter del Duce
«Si tratta di questo: mi interessa la figura (nobilissima) dell’avvocato Enzo Paroli... Le racconterò poi, se lei già non lo sa, l’azione di grande fraternità umana di cui è stato eroe (e mai la parola per me è stata così giusta)»: così Leonardo Sciascia, il 21 ottobre 1989, scriveva al suo caro amico il professor Pietro Gibellini per chiedergli di introdurlo presso la famiglia dell’avvocato Paroli, scomparso nel 1966. Il narratore siciliano desiderava che il docente universitario lo mettesse in contatto con gli eredi del brillantissimo, ma tutto sommato sconosciuto, avvocato. Come mai?
«Io sono venuto a conoscenza, quasi casualmente, di un’azione di suo padre davvero grande e nobile (Shakespeare direbbe: “Il latte dell’umana tenerezza"), e vorrei raccontarla», spiega Sciascia in un biglietto per Stefano, il figlio di Paroli. Queste lettere, emerse da una preziosa cartellina custodita nell’archivio dello scrittore di Racalmuto, vedono adesso la luce nel libro del giornalista e saggista Virman Cusenza Giocatori d’azzardo. Storia di Enzo Paroli, l’antifascista che salvò il giornalista di Mussolini (Mondadori, 216 pagine, 22 euro). La misteriosa vicenda di cui parla Sciascia – alla quale il romanziere, scomparso proprio nel 1989, avrebbe voluto dedicare un suo libro – è quella che lega l’oppositore del Duce, Paroli, a Telesio Interlandi, giornalista tra i più vicini al dittatore. Qual è dunque l’atto eroico di Paroli a cui si riferisce il celebre narratore?
L’avvocato, nel novembre 1945, assunse la difesa del notissimo razzista Interlandi, punto di riferimento della politica antisemita del fascismo, fondatore nel 1938 del quindicinale La difesa della razza e autore del pamphlet Contra judaeos. Ma non basta: al termine del conflitto Paroli nascose per otto mesi e mezzo il suo cliente, latitante e ricercato per collaborazionismo, nella cantina di casa, assieme alla moglie e al figlio.
Quello di Cusenza è un bellissimo giallo nel giallo: da una parte ci guida, sulle orme di Sciascia, a riscoprire tutta l’importanza del gesto di Paroli; dall’altra ci fa ripercorrere, anche con inediti documenti di archivio, l’avventura di Interlandi.
Come mai, dunque, alla fine della guerra il legale ospitò nello scantinato di casa il redattore capo dell’Impero, in seguito al timone de Il Tevere, quotidiano voluto e sostenuto personalmente da Mussolini? Paroli sapeva benissimo di rischiare la vita e di mettere a repentaglio l’incolumità della famiglia in un periodo in cui andavano per la maggiore le rese dei conti che coinvolgevano anche chi dava man forte agli ex fascisti. A spingerlo non fu il movente economico. Molto benestante, Paroli era un personaggio singolare che amava stupire, osserva Cusenza: mondano, donnaiolo, anticonformista, si concesse di prendere come amante la sorella di uno fascisti più sanguinari di Brescia.
Sul suo antifascismo, comunque, non c’era nessuna ombra. Fu designato tra «gli avvocati di illibata condotta morale, di ineccepibili precedenti politici e di provata capacità» al ruolo di pubblico ministero nella prima Corte d’assise straordinaria di Brescia «per i reati di collaborazione con i tedeschi». Incarico che rifiutò, non contemplando la possibilità di sostituire la sua toga da avvocato con un’altra. Paroli, quando accettò di sposare la causa di Interlandi che era stato arrestato nella campagna bresciana, incontrò il suo assistito nel carcere di Canton Mombello.
«Non si lasci ingannare dall’apparente scorza dura di mio marito», lo mise in guardia la moglie di Telesio. Paroli aveva già in mente la linea difensiva. Chiese al giornalista se avesse mai firmato un provvedimento in cui si esortava ad applicare con rigore le leggi razziali. Inoltre gli domandò se avesse mai partecipato a una qualche riunione in cui si fossero decise le sorti di cittadini a cui andavano applicate le norme del 1938, Dopo questo abboccamento Interlandi fu liberato per errore dalla galera. Non avendo a Brescia altri punti di riferimento, né potendo aspirare all’aiuto degli ex camerati, si rivolse a Paroli. Quest’ultimo capì che al suo scomodissimo e nemmeno tanto simpatico cliente poteva toccare in sorte un’esecuzione sommaria, una smitragliata senza processo e senza giudizio. Così imboccò la strada del suo personale sacrificio. Si prese in casa un latitante in attesa di un giusto processo. Grazie alla sua abilità di avvocato l’accusa di collaborazionismo fu archiviata nel 1946 e per altri reati seguì poi l’amnistia di Palmiro Togliatti.
Quale il messaggio che si ricava da questo singolare rapporto? Sciascia, alla fine dei fanatici ed estremisti anni di piombo, non aveva dubbi rivolgendosi a Stefano Paroli: «Credo che in questo nostro mondo di violenza, di fanatismo, quel che in anni lontani, e non meno violenti e fanatici, Suo padre ha avuto la forza di fare, noi abbiamo il dovere di non dimenticarlo e di indicarlo come esemplare».
L’avvocato credeva insomma fermamente nella sua «missione» di difensore ed era esemplare anche per la «umana fraternità». —