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 2022  gennaio 24 Lunedì calendario

Biografia di David Grossman

David Grossman, nato a Gerusalemme (Israele) il 25 gennaio 1954 (68 anni). Scrittore. «Scrivere per me significa libertà. È come se potessi sollevarmi dalla realtà della guerra e delle mie tragedie personali» (a Isabella Fava) • Nato e cresciuto a Gerusalemme. «“Mio padre ci si stabilì nel ’36, quando emigrò in Palestina dalla Polonia; mia madre ci è nata nel ’48, l’anno della Guerra d’indipendenza e della fondazione di Israele”. Dunque la sua famiglia è scampata agli orrori dell’Olocausto… “Non del tutto. In quella di mio nonno paterno, sedici persone sono finite nei forni crematori di Hitler”. […] La sua è stata un’infanzia felice? “Molto. Mio padre era autista di bus, mia madre segretaria: non eravamo certo agiati, ma non mi hanno fatto mancare niente”» (Enrico Franceschini). «“Già all’asilo, quando la maestra era impicciata, mi metteva a raccontare delle storie ai miei compagni. La cosa stupefacente era che mi ascoltassero. Poco più tardi, appena mia madre lasciava la macchina da scrivere, io ci infilavo subito un foglio e iniziavo a battere i tasti”. […] Da bambino era un grande lettore? “Avevo una vita interiore tempestosa che non riuscivo a incanalare da nessuna parte, soffrivo sommerso da paure e sogni, e leggere divenne una strada maestra. Nei libri trovavo un mio posto. […] Fui fortunatissimo. Mio padre faceva l’autista di autobus, ma, a un certo punto, per motivi di salute, smise di guidare e lo misero a dirigere la biblioteca della compagnia dei trasporti di allora. Fu come vincere alla lotteria: lui mi usava come un consulente, e quel luogo divenne quasi la mia libreria personale!”. Si appassionò ai racconti di Sholem Aleichem. “Esatto. Quello scrittore descriveva la vita degli ebrei nell’Europa dell’Est all’inizio del ’900, e mio padre, arrivato in Israele a 9 anni dallo shtetl di Dynów, in Galizia, non mi aveva mai parlato del modo in cui vivevano lassù. Un giorno mi dette un libro di Aleichem, dicendomi: ‘Leggilo: questo era il mio mondo’. Fu fantastico. Sì, era una realtà terribile, ma io non ne sapevo nulla”» (Susanna Nirenstein). «Lei cominciò a lavorare alla radio di Stato quando era molto giovane. Come iniziò? “In Israele non c’era la televisione fino al ’68, per cui la radio era tutto. Un giorno annunciarono che avrebbero organizzato un quiz a premi sui racconti di Sholem Aleichem. […] Superai l’esame, poi ne superai un altro, e alla fine […] dissero che, data la mia giovane età, dovevano sottopormi a molti altri quiz. Quando rientrai a casa da scuola e squillò il telefono […] e sollevai la cornetta, un signore della radio mi disse: “David, sto per farti tre domande, ma fai attenzione: se non saprai la risposta di una delle tre verrai squalificato”. A un certo punto diedi una risposta sbagliata, e lui disse subito: “Ci dispiace molto, non possiamo ammetterti fra i concorrenti, però ti vogliamo fra il pubblico durante la registrazione del programma. Se uno dei concorrenti non saprà la risposta, ci rivolgeremo a te”. E così mi sedevo fra gli spettatori, e quando uno dei concorrenti sbagliava risposta il presentatore si rivolgeva a me per avere quella esatta. […] Quando il gioco a quiz finì, un tizio della radio mi chiese se volevo fare l’attore radiofonico; non sapevo cosa significasse, ma mi fece un’audizione e io la superai. E così, a soli undici anni, ero sommerso dal lavoro alla radio. E guadagnavo – mi rincresce dirlo – più di mio padre”» (Jonathan Shainin). «Cominciai a fare prima l’attore radiofonico, e poi il mini-giornalista». «Quando nel 1967 scoppiò la Guerra dei sei giorni avevo tredici anni. Ricordo l’angoscia che la precedette. Ricordo il concretizzarsi dell’eventualità che fossimo rigettati in mare. Poiché quella possibilità era molto reale, nell’inverno precedente allo scoppio della guerra presi lezioni di nuoto alla Ymca di Gerusalemme. Mi pareva che saper nuotare fosse fondamentale» (ad Ari Shavit). «Perché ha imparato l’arabo? “Avevo 13 anni. Dovevo scegliere al liceo tra il francese e l’arabo. Mamma voleva che scegliessi il francese, ’la lingua della cultura’. E allora le ho portato un atlante e le ho fatto vedere che Parigi non era neanche sulla stessa pagina di Israele. Amo l’arabo. E quando l’ho imparato ho cominciato a capire meglio l’ebraico”» (Wlodek Goldkorn). «Quanto tempo è rimasto alla radio? “Per tutto il liceo. Poi ci tornai dopo il militare, per altri tredici anni, come giornalista e presentatore dei radiogiornali del mattino”. Cosa faceva nell’esercito? “Ero nei servizi segreti. Ci restai quattro anni, dal 1971 al 1975. Non ero in prima linea durante la guerra del 1973. Anche se nel 1982 ripresi servizio come riservista sul fronte orientale in Libano. […] Io, però, avevo bisogno di ritagliarmi uno spazio tutto mio perché volevo scrivere. Sentivo la necessità, la necessità fisica, di passare diverse ore al giorno da solo, a scrivere”. Cosa scriveva quando era nell’esercito? “Racconti, piccole cose. La narrativa vera e propria venne dopo, dopo che avevo lasciato l’esercito, però scrivere già mi piaceva. Io e tre amici tenevamo dei taccuini speciali, dove, accanto ai rapporti che dovevamo stilare, annotavamo le nostre osservazioni personali e le lettere che ci scambiavamo. Tutti sapevano di quei taccuini, e, quando qualcuno prendeva turno, se li leggeva. Diventarono una specie di istituzione. Persino il capo dei servizi segreti, durante le sue visite ufficiali, li leggeva”» (Shainin). «Dopo il servizio militare ho continuato a fare il giornalista alla radio sul serio. E nel tempo libero scrivevo». «“Ricordo bene la volta in cui seppi fisicamente non che volevo fare lo scrittore, ma che avrei scritto. Vivevo con la mia ragazza a Nachlaot, vicino al mercato, e litigammo: lei tornò dai genitori a Haifa. Ero devastato, mi dicevo che se quella donna non mi amava non lo avrebbe fatto nessun’altra. Mi rammento che andai al nostro piccolo tavolo e iniziai a scrivere a mano un racconto. Non so come… di fatto, mi usciva da dentro. Parlava di asini, e quando lo finii lo misi in una busta per lei (in Italia è uscito nella raccolta L’uomo che corre – ndr)… che tornò, ed è tuttora mia moglie”. E quando ha deciso che scrivere sarebbe stato il suo mestiere? “Anche qui c’è un momento preciso che ricordo. Laureato in Teatro e Filosofia, avrei dovuto dirigere un corso di Letteratura comparata. Un giorno, mentre pulivo per terra col mocio la nostra casa di Kiryat Yovel, capii che non volevo studiare letteratura, ma farla, scriverla. Mi fermai col bastone in mano e lo dissi a mia moglie. Lei mi sorrise scettica, e fu quello sguardo dubbioso a sfidarmi: dovevo provarle che l’avrei fatto sul serio”» (Nirenstein). «Lo shock vero venne per me con la guerra del Libano del 1982. Quando ero riservista mi trovai in missione in un piccolo villaggio nella parte orientale del Libano: iniziai a vedere cose che non avrei voluto vedere. Quando nel 1983 scrissi Il sorriso dell’agnello stavo già cercando di analizzare i mali dell’occupazione». «Il romanzo d’esordio di David Grossman, II sorriso dell’agnello (1983), fu il primo libro israeliano a essere ambientato in Cisgiordania. È la storia di un giovane soldato, Uri, l’agnello eponimo, che fa amicizia con Khilmi, un anziano cantastorie palestinese mezzo cieco, e poi ne diventa l’ostaggio. […] Il secondo romanzo, Vedi alla voce: amore (1986), resta il suo capolavoro, una ricostruzione storica in quattro parti di straordinaria inventiva. […] Nel 1987, per il ventesimo anno di occupazione israeliana della Striscia di Gaza e Cisgiordania, la redazione del settimanale israeliano Koteret Roshit mandò il giovane romanziere David Grossman in Cisgiordania, per sette settimane. […] Il suo reportage occupò l’intero numero della rivista e scatenò il putiferio in Israele. David Grossman aveva detto chiaramente che i palestinesi, vittime dei maltrattamenti quotidiani dell’occupazione da una generazione, non sarebbero più stati così docili. […] L’anno seguente, quando il resoconto di David Grossman fu pubblicato col titolo II vento giallo, l’Intifada palestinese era in pieno svolgimento. Quegli articoli erano stati premonitori, e avevano lanciato il loro autore – i cui primi romanzi avevano riscosso grande successo in Israele, ma non erano ancora stati tradotti – sulla ribalta internazionale» (Shainin). «Il vento giallo […] ha sollevato un’ondata di ostilità. […] Sono stato pubblicamente redarguito dal primo ministro Yitzhak Shamir, e alla fine mi hanno licenziato dalla radio». Ormai scrittore affermato, Grossman pubblicò con successo negli anni successivi romanzi quali Il libro della grammatica interiore (1991), Ci sono bambini a zig-zag (1994), Che tu sia per me il coltello (1998) e Qualcuno con cui correre (2000). «Nell’agosto del 2006, il figlio più giovane, Uri, comandante di carro armato nell’esercito israeliano, è rimasto ucciso negli ultimi giorni degli scontri contro Hezbollah, nel Sud del Libano. […] “Quando Uri entrò nell’esercito, cominciai a lavorare a un romanzo che diventò molto importante per la mia vita. Si rivelò inaspettatamente profetico”» (Shainin). Il romanzo in questione era A un cerbiatto somiglia il mio amore (2008), «un libro che racconta la storia di una madre che fugge per non ricevere la notizia della morte del figlio soldato. […] “Orah rifiuta il sistema che ha bisogno di una madre che aspetti in casa la notizia. Si rifugia nel pensiero magico. E so dalla mia esperienza che in momenti così il pensiero magico è molto presente. Ho conosciuto una donna che in una situazione analoga ha nascosto il numero civico della casa, perché non la trovassero”» (Goldkorn). Frutto della sua elaborazione della morte del figlio è Caduto fuori dal tempo (2011), «una specie di viaggio nell’universo altro, normalmente nascosto agli occhi dei vivi, di magnifica potenza» (Goldkorn). «Dopo la morte di mio figlio Uri ero paralizzato dal dolore, e solo quando ho trovato le parole per dirlo, per scriverlo, sono riuscito a non essere più solo una vittima, ma a ritrovare la vita. Colma di dolore, ma di nuovo mia». Seguì nel 2014 Applausi a scena vuota – «storia di Dovale e di come il suo amico ha girato lo sguardo altrove, mentre a lui stava succedendo una cosa terribile» – e quindi, nel 2019, La vita gioca con me, che «racconta l’epopea di tre donne – Vera, la nonna, Nina, la madre, e Ghili, la figlia –, che si riuniscono dopo anni per ricordare, ritrovare insieme le proprie radici. Vera, ebrea croata di 90 anni, ora in un kibbutz in Israele, ha un passato doloroso che comprende la deportazione in un campo di rieducazione sull’isola di Goli Otok, nell’ex Jugoslavia, dove venivano rinchiusi negli anni ’50 i dissidenti, durante il regime di Tito. Una storia che nasce dalla realtà. Dai ricordi di Eva Panić Nahir: […] è stata lei a mettere la sua testimonianza nelle mani di Grossman» (Fava). «Durante il lockdown, Grossman ha scritto e letto, ma si è dato una regola: “Scrivere per bambini e leggere solo scrittori più vecchi di me”» (Mauretta Capuano) • Autore di numerosi libri per l’infanzia. «Dopo ogni romanzo scrivo qualcos’altro, commedie, poesie, testi per un’opera, saggi, ma soprattutto fiabe. È un canale aperto con me stesso soprattutto da quando sono nonno di due nipotine». «Mi piacerebbe che i miei libri per bambini li preparassero alla crescita» (a Paolo Landi) • Sposato con una psicologa infantile, tre figli (tra cui Uri, l’ultimogenito, morto in guerra nel 2006). «Michal mi influenza con il suo lavoro e io influenzo lei con il mio. Ma, più che la sua professione, sono stati il nostro matrimonio e la sua famiglia a cambiarmi profondamente. È lei che mi ha fatto diventare di sinistra» • Vive con la famiglia in un sobborgo collinare di Gerusalemme, Mevaseret Zion, «nome biblico che significa “L’annunciazione di Sion”. Infatti Sion, che è uno dei tanti modi di chiamare Gerusalemme, si intravede oltre la collina successiva» (Franceschini) • «Lei è ebreo non credente. […] Da scrittore, che rapporto ha con la Bibbia? “Strettissimo. La leggo molto frequentemente, e con due amici – per 32 anni, tre ore alla settimana – ne ho studiato ampie parti. Mi sento molto ebreo, il linguaggio della Bibbia è la base del mio ebraico moderno, e le più belle storie sono tutte lì. Credere in Dio è un bisogno profondo e universale, lo trovi dovunque ci sia un uomo, ma io ho bisogno di sapere che non c’è un Dio: per me è importante credere che siamo soli in questo mondo e che il modo che abbiamo per renderlo tollerabile è essere sempre più umani e attenti agli altri, per capire che esperienza hanno della loro vita e così diventare più sensibili alle loro miserie e bellezze. Forse sono religioso in un altro modo, non so”» (Sara Ricotta Voza) • «Pratico yoga ogni giorno per mezz’ora e sono stato trattato da una meravigliosa maestra, Hannah Bahor, così sensibile e così esposta al dolore delle persone che sapeva toccare il punto giusto. Io spero di averlo imparato da lei, e lo applico anche alla scrittura. […] Io penso che tutta l’arte della scrittura sia un massaggiare i muscoli induriti della coscienza e delle emozioni, arrivare a posti che sono fossilizzati da paura, fatica, sospetto e odio» • «Non riesco a pensare alla mia vita senza la paura. Non ho mai vissuto senza paura, non ho mai avuto un momento di pace nella mia vita: sarà per questo che la cerco e che la vorrei realizzata in Israele, dove sono nato. […] L’illusione che ci terremo un giorno per mano guardando il tramonto, lasciamola ai film. […] Mi piacerebbe una pace sobria, dove Israele e Palestina provano a convivere. […] La vita mi ha insegnato a essere […] sobriamente realista». «“A ogni intervista i giornalisti italiani mi definiscono “pacifista” perché lotto per la pace. Cerco di spiegare che non sono un pacifista. Un pacifista non porta armi, nemmeno se gli uccidono la madre sotto gli occhi. Io ho fatto il soldato per quattro anni e il riservista per altri trenta. I miei due figli sono stati comandanti di carro armato. Noi dobbiamo difenderci. Ciò detto, il modo per uscire da questa situazione non è quello di seguire la filosofia del potere, bensì di essere aperti, generosi e coraggiosi. E non ne siamo stati capaci. Ci siamo assuefatti al nostro potere e alle nostre paure”. […] Il fatto che tutti i suoi libri vengano interpretati attraverso la lente del conflitto israelo-palestinese è una croce per lei? “E come se subissi una violenza. […] La letteratura ha molti strati, e solo uno di questi è politico”» (Shainin) • «Occhi grigio-azzurri, curiosi, vivaci, continuamente alla ricerca dello sguardo di chi dialoga con lui» (Goldkorn). «Il suo garbato contegno – aperto, curioso, accogliente – nasconde l’intensità […] della sua vita interiore» (Shainin) • «Oggi David Grossman è considerato in tutto il mondo uno dei massimi scrittori israeliani, il più grande romanziere della generazione successiva a quella di Amos Oz e di A.B. Yehoshua» (Shainin). «È uno dei migliori narratori che abbiamo al mondo oggi. Scrive con passione, intelligenza, umanità» (Paul Auster). «Racconta il dolore del mondo ed entra nei suoi personaggi come Zelig e Flaubert» (Paola Zanuttini) • «Devo sempre iniziare dalla corporeità. Tutti i personaggi di cui scrivo, li devo capire prima di tutto in base a come parlano, come si muovono, come amano, come mangiano, come si vestono o portano i capelli. Piccoli dettagli del corpo che per me sono essenziali. Soltanto quando capisco qualcuno anche dal punto di vista fisico sono in grado di scriverne e posso sviluppare una sua visione del mondo, una sua ideologia, una sua biografia» (a Cristina Taglietti). «Penso che in ognuno ci siano tante presenze, opzioni che scartiamo, di genere, carattere, linguaggio, educazione politica… Quando scrivo posso essere una donna, un vecchio, un bambino, un cane, un palestinese che guarda Israele come un nemico. Vengo invaso, ed è fantastico, perché normalmente siamo così protetti dagli altri. Uno scrittore vuole essere penetrato, posseduto. È una condizione eccitante, piena di vita. Il mondo diventa per me come un negozio di giocattoli». «Io voglio essere tradito, portato in un terreno pericoloso, in contrasto con le presunzioni fondamentali che ho di me stesso, della mia famiglia, del mio Paese» • «“Comincio scrivendo a mano. Riempio decine di taccuini, fino a quando la quantità di pagine scritte è ingestibile, e a quel punto passo al computer. Scrivo tante versioni diverse. Non è un sistema molto efficiente”. […] Ha delle strategie per quando si blocca? “A volte scrivo una lettera al mio protagonista, come se fosse un essere umano vero. Gli chiedo: ‘Qual è il problema? Perché non ce la fai? Che cosa mi impedisce di capirti?’. Mi ha sempre aiutato”. […] Sua moglie è il suo primo lettore? “Sempre. Ne parliamo in continuazione anche prima che legga i miei testi”» (Shainin) • «Per me ogni libro è il veicolo per un altro romanzo. E il successivo non può esistere senza il precedente, senza che in qualche modo io abbia già affrontato certi argomenti» • «È questo il ruolo dello scrittore: dare nomi nuovi a una realtà conosciuta. Tutte le storie esistenti sono già state narrate. Ma ecco che arriva lo scrittore e dà le sue parole, le sue metafore, mette insieme due parole che erano separate. E, dal momento che lo fa, la realtà che gli era estranea diventa sua. […] È un modo per assumersi la responsabilità diretta per il mondo» • «L’arte, e quindi anche la scrittura, è sentirsi simultaneamente parte sia del nulla, di tutto quello che non conosciamo, il vuoto e il baratro che attende ciascuno di noi rappresentato dalla morte, e, al tempo, stesso della vita nella sua pienezza. Io, che non sono credente in senso religioso, nell’arte credo fortemente» (ad Antonio Buozzi) • «Tutte le volte che ho scritto qualcosa, la mia scrittura è diventata qualcosa che ha cambiato me stesso, la mia vita. Scrivere mi libera da questa sensazione di solitudine, di non essere capito, che non ci sia un posto per me nel mondo»