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 2022  febbraio 06 Domenica calendario

Il libro testamento di Vitaliano Trevisan


Mi accade, di tanto in tanto, di non riuscire a dormire. Meglio lasciare il letto subito, prima che i demoni inizino con le loro insinuanti litanie. Una passeggiata notturna, lunga quanto basta perché si stanchino di aspettare. Naturalmente il paese è deserto e discretamente buio, cosa che in fondo apprezziamo, dato che non c’è niente da vedere. In questo posto, per trovarci qualcosa uno dev’esserci nato. Ma se ci è nato, com’è il caso di chi scrive, non è affatto detto che da quel qualcosa scaturiscano ricordi belli e piacevoli. In effetti, più passa il tempo, più mi rendo conto che tornare a vivere qui non è stata affatto una buona idea.
A dire la verità non fu una scelta, ma una delle tante conseguenze della vita, sempre al di sotto delle mie possibilità, che ho scelto di condurre. No, anche a monte nessuna scelta, a meno che tenersi in equilibrio su un filo, preoccupandosi solo di non cadere in qualcosa che avesse un’apparenza di definitivo – come ad esempio sposarsi, avere dei figli eccetera – non si possa considerare tale. Da qui, uno dei principi fondamentali a cui mi sono sempre attenuto: non fare mai un mutuo per acquistare una casa. I mutui sono trappole mortali, fatti apposta per renderci ricattabili, per legarci mani e piedi – nel mio caso mano e penna –, a quel mondo umano che, come detto, abbiamo imparato molto presto a detestare, e sempre più abbiamo detestato e detestiamo, ma a cui, evidentemente, siamo comunque legati, visto che, nonostante tutto, non ci siamo mai veramente decisi a lasciarlo. E abbiamo ben due contratti, per altrettanti libri che, prima o poi dovremo anche scrivere, visto che abbiamo incassato anticipi già spesi – come avere due mutui, in un certo senso, e su un altro stiamo trattando. Dunque legati con un fottuto cappio intorno al collo.
Se uno ci pensa, una situazione di merda. Intendo la condizione umana in generale. Ma è proprio questo il punto, che fin da bambino non sono mai riuscito a fare a meno di pensarci, arrivando sempre alla conclusione che non solo si tratta di una situazione di merda, ma di una situazione di merda senza via d’uscita; o meglio che l’unica possibile via d’uscita è prendere in mano la situazione di merda e stringere il nodo subito, senza por tempo in mezzo.
O così, o rassegnarsi ad aspettare, con gli altri, che esso si stringa da sé, così che un giorno, in un bar che frequentiamo di sfuggita, giusto il tempo di prendere il tabacco e magari bere un caffè, tanto per rovinarci la giornata scorrendo Il Giornale di Vicenza, qualcuno dirà: È morto; e qualcun altro chiederà, De cosa?; e il primo risponderà con un’altra domanda, De cosa vuto che ’l sia morto? e tutto sarà chiaro. Se fosse stato un infarto, o qualsiasi altra cosa, l’avrebbe detto. Ma da queste parti è più probabile che la fine arrivi in forma di domanda retorica. Forse dovrei smettere di fumare. Non credo che lo farò. Ho bisogno anch’io di un po’ di compagnia. Il fatto è che proprio non credevo mai che sarei arrivato a questa età, in cui la prospettiva di cui sopra, già di per sé triste, si fa ogni giorno insieme più vicina e più triste. Impreparato per i cinquanta. Impreparato anche per i quaranta. Impreparato sempre, a dire la verità, ma un tempo, l’idea che in ogni momento avrei potuto prendere l’iniziativa e farla finita, mi rendeva l’esistenza più tollerabile. In fondo, il bene più prezioso su cui l’essere umano può contare, ciò che davvero lo distingue dall’animale, è la possibilità di sottrarsi al mondo in ogni momento attraverso il suicidio. Ma perché questo pensiero possa essere di effettiva consolazione, la modalità dev’essere il più possibile estetica, e l’idea di suicidarmi ora, a cinquanta e passa anni, ha un che di ridicolo. Ah quegli occhi, che un tempo mi amavano in modo così incondizionato, e ora non riescono a nascondere il disgusto. Faccio di tutto per evitare il loro sguardo, ma uno deve pur farsi la barba di tanto in tanto. Ho provato a farla crescere, ma era peggio: per regolarla ero costretto a mettere gli occhiali, e quella piccola vena che mi pulsa nella tempia, vederla così nitidamente mi era insopportabile. Avrei dovuto cogliere l’occasione e stringere il cappio al momento giusto, quando ero ancora giovane, come Carlo Michelstaedter, come Sarah Kane, come Stig Dagerman – sui libri di quest’ultimo, sempre si trova scritto, e io sempre leggo, «morto suicida a trentuno anni, all’apice del successo». Adesso è tardi. Dovrò rassegnarmi a portare in giro la carcassa difettata per il tempo che sarà.
E poi quale successo? Nel caso di chi scrive si tratta solo di notorietà, di avere un qualche nome, cosa che induce il volgo a credervi anche ricchi, e a chiedersi come mai siate tornati a vivere in questo paese del cazzo, in una casa che ormai cade a pezzi, e a stupirsi nel vedervi viaggiare in treno in seconda classe. Certo, avere successo è estremamente pericoloso, specie se si è giovani. Sempre pensato così. I numerosi esempi di più o meno giovani scrittori investiti da un’improvvisa ondata di successo, e a causa di ciò precocemente rincoglioniti, sia come scrittori che come persone, non ha fatto che confermare quella prima istintiva ripugnanza. Ma ora, giunto a un’età più che matura, penso che peggio di avere successo, e peggio anche di non averne affatto, è restare nel mezzo, ossia guadagnare notorietà, che è in sé una sorta di successo, senza però guadagnare i soldi che gli esterni, il cosiddetto volgo di cui sopra, inevitabilmente vi associano. Pazienza, mi dico, è uno scotto da pagare. Non appena uno scrive qualcosa, e lo pubblica, deve anche accettare che chiunque abbia avuto la compiacenza di leggere, si senta anche in diritto, visto il tempo investito, di farsi a riguardo un’opinione. Tuttavia questo è del tutto normale, e non c’è nulla da aggiungere. Il problema è che chi legge non solo si fa un’opinione su ciò che ha letto (spesso senza nemmeno aver letto), ma anche, direi soprattutto, si fa un’opinione su chi ha scritto.
Qualsiasi cosa si scriva, sembra non si possa fare a meno di andare a vedere se dietro le parole, anche le più chiare e precise, non vi siano delle altre parole, un qualche movente nascosto, una qualsiasi cosa utile a dividere il mondo in un noi e un loro – e se non si è con loro, si è contro di loro. L’atteggiamento più normale, e il più stupido, è di attribuire allo scrittore la stessa visione del mondo dei suoi personaggi, stupidità che, cipollianamente, si distribuisce equamente a prescindere che si tratti di lettori cosiddetti alti, bassi e/o medi, ammesso che una tale distinzione abbia un senso, cosa di cui voglio dubitare, e da ciò proporre la piú neutra distinzione in lettori professionali e non professionali, anch’essi comunque inesorabilmente, cipollianamente accomunati in termini di percentuale di stupidità.