Corriere della Sera, 6 febbraio 2022
La morte del piccolo Rayan
«I genitori, hanno chiamato i genitori!». Sono passate da poco le 9 di sera quando, alla luce delle fotoelettriche e dei telefonini, la folla degli uomini intona inni di ringraziamento. Questione di attimi. Dopo quattro giorni e quattro notti di incubo.
Lo portano fuori avvolto in un lenzuolo giallo. Papà Khalid e mamma Soumaya ora aspettano all’ambulanza. Che parte verso il piccolo campo dove un elicottero è pronto a partire. La folla festeggia. Ma l’elicottero non si alzerà in volo. E un comunicato della Casa Reale del Marocco gela tutti: «Rayan è morto per le ferite riportate durante la caduta».
Per tirarlo fuori avevano squarciato la montagna. E poi hanno continuato a rosicchiare la roccia a mani nude, per ore, avanzando in orizzontale grazie a un condotto di sicurezza. Piano piano, per non rischiare di far crollare tutto. Roccia grigia, terra rossa. Alla luce del sole e quando è calata la sera, una grande scavatrice gialla, con il braccio pazientemente piegato e ormai inservibile, è rimasta a fare da sentinella all’imboccatura della caverna artificiale, mentre dentro i soccorritori con il casco rosso avanzavano a piccoli colpi di 20 centimetri all’ora per salvare il bambino Rayan, 5 anni, prigioniero da martedì pomeriggio di un pozzo profondo 32 metri e largo 25 centimetri. Il pozzo che, mentre lui giocava, suo padre stava sistemando.
Per ore ieri il papà contadino è stato visto vagare all’entrata della caverna, o seduto con il cappuccio calato sulla testa, mentre intorno una folla sterminata di persone (quasi tutti uomini) incorniciava la scena da ogni lato. A Ighrane, villaggio di 500 persone sulle montagne del Rif, nel nord del Marocco, tanta gente insieme non si era mai vista. Persone pronte, con il cellulare in mano, a riprendere un momento atteso in tutto il Marocco e non solo. Un momento che era sembrato imminente già dal mattino, quando i capi della Protezione Civile raccontavano che l’avanzata nella notte precedente era stata ritardata da un pericoloso imprevisto: l’ostacolo di una grande roccia di tre metri aveva richiesto quattro ore di scavo e mille precauzioni per la paura di frane. Il sole è tramontato sui monti del Rif, su quel villaggio di coltivatori di cannabis che è sempre stato soltanto un puntino nelle mappe, e il momento tanto atteso ancora non arriva. Per la mamma e il papà di Rayan, per gli spettatori che a decine (tanti bambini) hanno chiamato le radio e le tv per lasciare un messaggio o una preghiera.
100 ore sotto terra
Gli scavatori l’hanno raggiunto avanzando 20 centimetri all’ora per evitare frane
Alla discesa del buio, gli «Allah Akhbar» lanciati verso il cielo sono ripresi tra la folla, quando alla squadra degli scavatori si è affiancata l’equipe dei medici. Le flebo dopo gli scalpelli. Ma del piccolo Rayan ancora nessuna traccia. Nella mente le avvertenze di Abdelhadi Temrani, responsabile dei soccorsi, che prima di mezzogiorno aveva messo in guardia: «Non è possibile determinare le condizioni del bambino. Non sappiamo se abbia preso l’acqua e la mascherina dell’ossigeno che gli abbiamo mandato giù. Ma preghiamo Dio che sia vivo».
Le ultime immagini dalla telecamerina, ha raccontato Temrani, mostravano Rayan appoggiato sul fianco. Giovedì, il giovane che si era calato nel pozzo arrivando a sei metri di distanza dalla sua testa ferita, come avevano fatto a Vermicino i volontari italiani nel tentativo di salvare Alfredino Rampi nel 1981, lo aveva sentito piangere e respirare. Non aveva potuto fare altro, perché a 26 metri il pozzo si restringeva ulteriormente. La Protezione Civile aveva così cambiato strategia. Scavando la montagna con sei scavatrici in modo da arrivare «di lato» alla stessa profondità del bambino. Sulla parete in alto, sotto il treppiede alla bocca del pozzo, i segni dei denti delle benne. Al fondo, «i perforatori» che avanzavano 20 centimetri all’ora. Scesa la notte, nella caverna illuminata dalle fotoelettriche si è continuato a lavorare. Fuori, la folla in attesa: tra la sentinella gialla e l’ambulanza bianca pronta ad aprire il portellone per il tragitto fino all’elicottero e da lì all’ospedale.
Poi sono comparsi i genitori, il papà con il cappuccio e gli occhi bassi, la mamma impietrita. Cominciano i cori. Adesso esce. Ancora un attimo. Scattano i telefonini. L’ambulanza accoglie Rayan avvolto in un lenzuolo giallo.