Corriere della Sera, 6 febbraio 2022
L’arroganza dell’applauso
A scena aperta. Alla fine, Sergio Mattarella è stato gratificato con 55 applausi, mai così tanti nella storia della Repubblica per un discorso presidenziale. Tutti meritati, sia chiaro, tuttavia è la prima volta che un evento istituzionale ottiene un consenso caloroso a tal punto.
Ormai si applaude dappertutto, in ogni situazione, tanto da far nascere il dubbio che stia cambiando il concetto stesso di applauso come se i talk show (dove si applaude di continuo e a comando) ci avessero inculcato un format comportamentale.
Abbiamo preso l’abitudine di applaudire fuori luogo, fuori tempo, fuori scena. Applaudiamo in chiesa, applaudiamo ai funerali (l’orchestrazione funebre del battimano è diventata un’indecorosa usanza), applaudiamo durante il minuto di silenzio, applaudiamo per paura del silenzio, applaudiamo per i famosi 92 minuti fantozziani. Un applauso non lo si nega a nessuno, proprio perché il gesto è stato svuotato di senso: può anche trasformare una tragedia in commedia. Aveva capito tutto Carmelo Bene quando sosteneva che l’applauso è una specie di arroganza mascherata, «nella convinzione che, con un po’ di prove, quelli in platea farebbero meglio di quelli in scena».
La fine del mondo sarà accolta da grandi applausi credendo si tratti di un colpo di teatro.