La Lettura, 6 febbraio 2022
Le guerre della lingua
A forza di sentirci ripetere che le ideologie sono morte, non ci siamo accorti di quanto forte sia ancora oggi l’impatto delle ideologie linguistiche. A ricordarcelo ci sono ora due volumi di saggi scritti a più mani e in più lingue (italiano, francese, spagnolo): Le ideologie linguistiche: dibattiti, purismi e strategie discorsive e Le ideologie linguistiche: lingue e dialetti nei media vecchi e nuovi. Entrambi nascono dall’attività del gruppo internazionale di ricerca Circula, che da quasi dieci anni promuove lo studio di questi aspetti nell’ambito delle lingue neolatine tramite la pubblicazione di una rivista in Rete e l’organizzazione di vari convegni.
Per ideologia linguistica s’intende l’insieme di credenze e convinzioni sulla lingua che sono condivise da una determinata comunità in una determinata epoca. Credenze e convinzioni che riguardano la correttezza grammaticale, il rapporto tra lingua nazionale e lingue locali e tra lingua nazionale e lingue straniere, il funzionamento stesso della lingua e del linguaggio. Ma non hanno nulla di tecnico: anzi, sono il riflesso – più o meno inconsapevole – di una visione del mondo e dei rapporti tra le persone. Di qui il loro legame, anche se non sempre evidente e lineare, con la politica.
Senza evocare ancora una volta Antonio Gramsci, per cui la questione della lingua era tutt’uno con quella dei gruppi dirigenti e dell’egemonia culturale, basta guardarsi un po’ intorno. «Finalmente uno che sbaglia i congiuntivi come noi», diceva – lungimirante – un sostenitore della discesa in campo dell’ex-magistrato Antonio Di Pietro. Un atteggiamento perseguito con coerenza, in tempi più vicini e luoghi solo apparentemente più lontani, dai tweet di Donald Trump. Gli strafalcioni linguistici – continuamente evidenziati dagli avversari – branditi alla stregua di armi retoriche proprio per additare il presunto snobismo dei democratici.
Il popurismo
Leggendo i saggi raccolti in questi due volumi, ci si convince che l’ideologia linguistica prevalente ancora oggi sia – non solo in Italia – un istintivo (perché così educato) conservatorismo. Passate attraverso la rigida pedagogia ottocentesca e le politiche nazionalistiche di primo Novecento e alimentate anche in seguito dai mezzi di comunicazione di massa, queste idee hanno dato vita nel tempo a una versione mitigata e mimetizzata del purismo tradizionale. «Premesso che non sono purista: però tutte quelle parole straniere... tutti quegli orrendi neologismi... tutto quel dialetto al cinema e in tv...il problema è che a scuola non s’insegna più la grammatica di una volta». Una visione non propriamente purista, ma senz’altro un po’ purista: popurista, appunto. Un fantasma si aggira per l’Europa: quello del popurismo.
Quello – rimanendo dalle parti nostre – dei nostalgici di quando c’era egli, del «Signora mia, non esistono più le mezze interpunzioni»; del punto e virgola è morto, il congiuntivo è morto e anche io non mi sento tanto bene. Quello dell’italiano sotto attacco, dei barbari alle porte, dell’avvento sempre imminente dell’«itanglese» (nome, peraltro, ispirato mezzo secolo fa dall’ancor più vecchio franglais). Quello per cui la lingua nazionale è minacciata non solo dalle lingue straniere, ma anche dalle lingue locali e dalle lingue di chi viene da altre terre. Nella monolitica convinzione che, come recita uno slogan su cui in Spagna si è molto discusso qualche anno fa, Lengua madre solo hay una: di lingua madre ce n’è una sola.
Cosa che renderebbe impossibile – ad esempio – quella convivenza tra lingua e dialetto sperimentata ancora da moltissime persone in tante regioni d’Italia: secondo le ultime indagini Istat, un terzo della popolazione italiana parla in famiglia anche il dialetto, con punte oltre il 60% in Veneto; quasi al 70% in Basilicata, Sicilia e Calabria; oltre il 75% in Campania. E renderebbe impossibile il mantenimento della lingua d’origine nelle famiglie immigrate, che invece è tutelato da istituzioni internazionali come le Nazioni Unite e comincia ad affacciarsi come esigenza anche nei nostri programmi scolastici. Il miglior argine allo strapotere dell’inglese non è la difesa a oltranza del monolinguismo, ma – come sostiene l’Unione Europea – la prospettiva del multilinguismo. Di qui la campagna, portata avanti ormai da più di vent’anni, in favore di una lingua adottiva: una terza lingua, diversa dalla propria e da quella usata per la comunicazione internazionale. Una persona, tre lingue.
Il pregiudizio universale
Un buon modo per capire quanto sia radicato questo sistema di convinzioni può essere rileggere quello che il letterato illuminista Melchiorre Cesarotti scriveva nel suo Saggio sulla filosofia delle lingue applicato alla lingua italiana a proposito di «alcune opinioni, che mal fondate, o mal applicate impediscono costantemente il miglioramento della lingua». Quelle, ad esempio, per cui «si suppone che tutte le lingue siano reciprocamente insociabili, che il loro massimo pregio sia la purità, che qualunque tintura di peregrinità le imbastardisca, e corrompa». O per cui «si fissa la perfezione d’ogni lingua ad un’epoca particolare per lo più remota, dalla quale quanto più si scosta, tanto più si degrada». O – ancora – per cui «si declama contro qualunque innovazione, e si pretende che la lingua possa e debba rendersi in ogni sua parte inalterabile». Opinioni che Cesarotti discute a una a una e prova a smontare alla luce di nuove idee che chiama, come usava all’epoca, filosofiche. L’edizione definitiva di quel saggio è del 1800 (due versioni precedenti erano uscite nel 1785 e nel 1788).
Nel frattempo, lo studio delle lingue ha fatto tantissima strada in moltissime direzioni. Ma per quanto riguarda quelle idées reçues, ha sostanzialmente confermato che si possono a buon diritto definire – come faceva l’illuminismo – pregiudizi. Eppure, nonostante tutti gli sforzi fatti in questi due secoli, quei pregiudizi continuano ad agire in profondità.
Come questi due volumi dimostrano molto bene, quelle convinzioni permeano ancora l’ideologia linguistica del parlante medio. Lo si vede anche dalle metafore usate per parlare di lingua, che – in Francia, come in Spagna o in Italia – sono sempre le stesse. La malattia, con il contagio e le ferite; la deformazione, con i suoi mostri lessicali e i suoi orrori grammaticali; la religione, con gli errori come peccati da confessare; la guerra, con le immagini dell’invasione e della conseguente difesa della lingua dagli agenti esterni. Quelle idee sono ancora alla base di molte domande poste nelle varie rubriche sulla lingua; imperversano nel dibattito mediatico e fanno sentire il loro peso anche al cinema e in televisione. Straripano ormai in Rete, producendo infinite – e spesso violente – discussioni a proposito di ortografia e punteggiatura, di congiuntivi e forestierismi. Discussioni in cui allo specialista che si azzarda a intervenire viene dato quasi sempre pochissimo ascolto: proprio perché quelle certezze continuano a essere percepite come salde e inamovibili.
L’italiano percepito
Il principale prodotto di questa ideologia è una varietà di lingua che potremmo chiamare trascendentale. Una lingua perfetta e immutabile che, collocata in una sorta di empireo, guarda dall’alto tutti gli usi reali e concreti. E non può che giudicarli tutti più o meno difettosi, perché inevitabilmente nessuno coincide con quella proiezione idealizzata. Di qui il rafforzarsi di un «italiano percepito» sempre più lontano dalla realtà. Quello su cui si fondano ancora troppo spesso le correzioni dei compiti scolastici, le intemerate telematiche degli ultrà grammaticali, i contrapposti estremismi di dialettofobi e dialettolatri e tanti titoli giornalistici (Ma l’italiano esiste ancora?; La dolce morte dell’italiano; Scuola, allarme italiano lingua morta, per limitarsi ad alcuni annotati negli ultimi mesi).
È alla luce di questo italiano percepito che si spiega la distanza tra ciò che molte persone dicono a proposito della lingua e ciò che davvero fanno quando parlano e scrivono nella vita di tutti i giorni. Quante volte capita di sentire gente che, poco dopo aver tuonato contro le parole straniere, si lascia sfuggire un riferimento alla location o non resiste alla tentazione di un selfie; che se la prende con l’attimino e poi farcisce il suo discorso di in qualche modo, che bacchetta un indicativo ma usa il congiuntivo a sproposito, che critica il troppo spazio lasciato ai dialetti ma non si accorge di usare regionalismi. Forse in molti casi non si tratta neanche di distrazioni, ma di una doppia morale introiettata nel tempo. Non tanto il «si fa ma non si dice» quanto il «si dice ma non si dice che si fa». Un’attitudine implicitamente suggerita proprio dal modo in cui la lingua è stata insegnata per tanto tempo a scuola. Da quello scollamento intrinseco tra essere e dover essere che nasce da una norma astratta; tanto rigida quanto inefficace rispetto alle esigenze della comunicazione: e non solo di quella quotidiana, ma anche di quella professionale. Con il rischio d’instillare atteggiamenti – questi sì, populisti – di lassismo e rinuncia, nell’errata convinzione che la grammatica nella vita vera non serva a niente. Quando invece è vero il contrario, perché – come Leonardo Sciascia faceva dire a un vecchio professore nel suo Una storia semplice – «l’italiano non è l’italiano: è il ragionare». Solo che, appunto, dev’essere un italiano vero.