Il Messaggero, 6 febbraio 2022
Storia del processo a Émile Zola
Il 7 febbraio 1898 si aprì a Parigi una cause célèbre che infiammò e divise i francesi più di quella che un secolo prima aveva portato Luigi XVI alla ghigliottina. L’imputato era Émile Zola, e l’accusa era di diffamazione delle forze armate. L’illustre scrittore aveva pubblicato il 13 Gennaio sull’Aurore una lettera aperta al presidente Félix Faure con il titolo J’accuse in cui elencava tutte le contraffazioni, le omissioni e le complicità dello Stato Maggiore nel processo contro Alfred Dreyfus, un ufficiale condannato all’ergastolo per tradimento, e spedito all’isola del Diavolo, arida e pestilenziale scogliera al largo del Sudamerica.
LA STORIA
Tutto era cominciato nel Settembre del 1894, quando il controspionaggio di Parigi aveva scoperto che dallo Stato Maggiore dell’Esercito venivano trasmesse alla Germania importanti e riservate informazioni militari. I sospetti erano caduti su questo trentaseienne capitano di artiglieria ebreo, eterno straniero in patria. Come vittima sacrificale, Dreyfus era la persona più adatta. Per la sua religione era visto con diffidenza dai conservatori e per la sua divisa era odiato dalla sinistra. Quanto a lui, non faceva nulla per rendersi simpatico, era schivo, silenzioso e «corretto sino all’esagerazione». Anche al processo, sembrò una spia travestita da spia.
L’addetto all’indagine, maggiore Henry, aveva convertito i propri pregiudizi in prove fasulle, e confezionato un «fascicolo segreto» infarcito di documenti alterati. Con questo bagaglio di menzogne convinse i superiori, che a loro volta convinsero i giudici militari. Dreyfus fu processato a porte chiuse e senza difesa, fu condannato e degradato. Come ultima infamia, l’esercito comunicò alla stampa che l’imputato aveva confessato. E tutto parve finire lì.
I DUBBI
Nei tre anni successivi qualcuno cominciò a dubitare della regolarità del processo e della colpevolezza del condannato, anche in seguito a forti indizi emersi nei confronti di un altro ufficiale, il maggiore Ferdinand Esterhazy, un corrotto individuo, oberato di debiti e con ambigue frequentazioni. Per evitare un’eventuale revisione del giudizio, Henry continuò nelle sue manipolazioni. Falsificò una lettera, attribuita a un ufficiale italiano, che avrebbe confermato la colpevolezza di Dreyfus. Ma questa volta esagerò. Bernard Lazare, un giornalista di sinistra pubblicò un libello, Un errore giudiziario: la verità sul’affare Dreyfus, che aumentò i dubbi suscitati in precedenza. Così il nuovo capo del controspionaggio, colonnello Picquard, rivedette l’intero fascicolo, scopri la colpevolezza di Estehrazy e le falsificazioni di Henry, e riferì tutto ai suoi capi, che per tutta risposta lo fecero prima trasferire e poi imprigionare. Il buon nome dell’esercito doveva prevalere sulla giustizia e sulla condanna di un innocente.
Ma ormai la perdita era diventata una piena. Molti intellettuali non si erano rassegnati a queste vergognose pantomime, e cominciarono a polemizzare apertamente. L’impatto fu enorme. La figura del povero capitano, relegato a migliaia di miglia, diventò il simbolo della legalità contro il sopruso, del progressismo contro la reazione, della laicità contro il clericalismo, della borghesia intraprendente contro la nobiltà conservatrice, del radicalismo repubblicano contro i sussulti dei nostalgici monarchici legittimisti. Per due anni L’Affaire, come ormai veniva chiamato, monopolizzò le pagine della stampa, le risse in parlamento e le discussioni nei salotti, rigorosamente distinti tra innocentisti e colpevolisti.
TEMPI D’ORO
Ogni salonnière, rivivendo i tempi d’oro dei due secoli precedenti, aveva i suoi Bossuet e i suoi Diderot: il conservatore Jules Lemaitre pontificava tra generali e prelati da Madame de Loynes, il camarade Anatole France regnava nel salon di Madame de Caillavet, ispirando Proust e rinfrescando la prosa francese con l’eleganza di Voltaire. Ma il conflitto non si limitò alle classi alte, si estese agli uffici, ai caffè, persino alle famiglie, dove frequenti risse testimoniavano le inconciliabili differenze di vedute, frantumando solide amicizie e vacillanti matrimoni. I trenta quotidiani che andavano a ruba a Parigi, naturalmente soffiavano sul fuoco.
Fu in questa atmosfera incandescente che si aprì il processo a Zola. Nel palazzo di giustizia della cité si accalcarono dame impellicciate e rissosi proletari, e spesso la polizia dovette intervenire per impedire zuffe sanguinose. Una folla agitata assalì la casa dello scrittore e gli uffici dell’Aurore, e vi furono manifestazioni antisemite. L’imputato si difese con coraggio e vigore, ma fu condannato, con 7 voti contro 5, al massimo della pena, un anno di prigione. Mezza Francia ribollì di rabbia: tremila intellettuali, filosofi, medici e artisti da André Gide a Claude Monet firmarono in suo favore, ma per evitare il carcere Zola si rifugiò, come Voltaire quasi due secoli prima, in Inghilterra. Quanto a Dreyfus, il ministro della Guerra Cavaignac, conservatore ottuso ma onesto, affidò a un altro ufficiale il riesame del dossier, che, a un esame attento e imparziale, rivelò le grossolane e reiterate falsificazioni di Henry. Quest’ultimo fu arrestato e si suicidò in prigione. L’intero castello accusatorio era crollato.
IL FANTASMA
Il processo fu rifatto, e Dreyfus si presentò alla corte come un fantasma macilento e frastornato, nemmeno in condizione di difendersi. Il verdetto sorprese il mondo: colpevole con le attenuanti, e condanna a cinque anni, già scontati. La Francia ribollì di nuovo, ma stavolta il presidente Émile Loubet troncò la questione con un’amnistia. L’esausto imputato la accettò, e le polemiche si placarono. Finalmente, il 13 Luglio 1906, dopo un definitivo annullamento della precedente condanna da parte della Cassazione, la Camera approvò una legge che lo reintegrava nella carica con il grado di maggiore, conferendogli una decorazione.
LA BALLERINA
Nel frattempo Zola, tornato in patria a seguito di un’amnistia, era morto in circostanze oscure, soffocato dal fumo del camino. Poco prima se n’era andato anche Félix Faure, il presidente destinatario della lettera che era costata a Zola il processo: il maturo gentiluomo era rimasto stecchito all’Eliseo, tra le braccia di una ballerina durante una prestazione che un secolo dopo sarebbe quasi costata a Bill Clinton non la vita ma la presidenza. George Clemenceau, acerrimo nemico di Faure e spietato dissacratore anche dei defunti, ne commentò la dipartita con una sciabolata degna di Archiloco: Il voulait etre César, il est mort Pompée (voleva essere Cesare, è morto Pompeo).