Il Messaggero, 6 febbraio 2022
Gli Usa liberano al Qahtani, il pilota mancato dell’11/9
Nel pomeriggio del 4 agosto 2001, il ventenne saudita Mohammed al-Qahtani atterrava a Miami con un volo proveniente da Dubai. L’ufficiale dell’immigrazione che studiò il suo passaporto trovò abbastanza elementi sospetti sul suo nome e sul suo visto da decidere di rimandarlo indietro con il volo seguente. Quell’ufficiale ci aveva visto giusto. Lui non lo sapeva, ma ad accogliere al-Qahtani, in sala d’attesa, c’era Mohammed Atta, il leader della squadra terrorista che di lì a 38 giorni avrebbe colpito le Torri Gemelle a New York e il Pentagono a Washington. Al-Qahtani avrebbe molto probabilmente dovuto essere il quinto membro del manipolo che si impossessò del volo 93 della United, l’unico aereo dirottato da una squadra di quattro terroristi anzichè cinque come fu il caso degli altri tre.
CATTURATO DOPO L’11 SETTEMBREInvece, tornato a casa, il giovane si recò in Afghanistan per combattere gli americani insieme ai membri di al-Qaeda. Fu catturato nel dicembre 2001, e subito portato nella prigione di Guantanamo. È stato detenuto 21 anni. Ma fra pochi mesi sarà riconsegnato all’Arabia Saudita. Il suo è uno dei casi più tragici e angoscianti fra i 700 casi di internati nella prigione extraterritoriale voluta da George Bush nel gennaio del 2002 e gestita dalla Marina. Il suo avrebbe potuto essere un caso esemplare per la giustizia, un processo diretto e facile.
Ma al-Qahtani non è mai stato processato e non lo sarà mai. Fa parte di quei casi che la Cia torturò, inquinando il diritto della Giustizia di muoversi ufficialmente contro di lui. Il trattamento che gli agenti Cia riservarono al giovane terrorista fu così estremo che la funzionaria dell’Amministrazione Bush che aveva l’incarico di supervisionare l’attività delle Commissioni Militari (tribunali misti militari-civili) disse senza esitazioni: «Non può essere incriminato. Lo abbiamo torturato». Al-Qahtani aveva confessato, ma lo aveva fatto dopo settimane in cui era stato sottoposto a waterboarding (una tortura in cui si espone forzatamente l’individuo a un finto annegamento fino al momento in cui quasi perde i sensi), finte esecuzioni, privazione del sonno e dell’acqua, freddo intenso in totale nudità, umiliazioni sessuali.
Già una persona normale resterebbe segnata psicologicamente in modo irreversibile da simili trattamenti, ma al-Qahtani aveva l’aggravante di soffrire di schizofrenia per una concussione cerebrale subita da bambino. Gli stessi psichiatri della base sono giunti alla conclusione che la sua instabilità mentale è stata gravemente peggiorata da questo trattamento. E comunque le confessioni estratte con la tortura non possono essere portate in tribunale. Dopo due decenni di prigionia senza speranza di una soluzione legale, una commissione di tutti gli enti della Sicurezza, incluso il Pentagono, è giunta dunque alla conclusione che l’unica strada per al-Qahtani è in rientro nella natia Arabia Saudita, dove la famiglia si prenderebbe cura di lui e le autorità lo ricovereranno in un centro psichiatrico specializzato nel recupero di estremisti. Sarà solo il secondo prigioniero di Guantanamo rilasciato da Biden, l’altro è stato il 56enne marocchino Abdul Latif Nasser, lo scorso luglio. Il presidente si è sempre detto favorevole alla chiusura di Guantanamo, e anzi durante la presidenza di Obama fu incaricato di facilitare personalmente il rientro di decine di prigionieri e contrattò con vari Paesi perché quest’ultimi potessero essere rimandati in patria.
LA PRIGIONE INCUBO DEMMa la chiusura di questa prigione che Bush creò per poter incarcerare i terroristi senza portarli in territorio statunitense, è una spina nel fianco dei democratici. Bush stesso rimandò a casa quasi 500 degli uomini che vi aveva fatto rinchiudere. Obama tentò ripetutamente di liquidarla e trasferire quelli che restavano in un carcere di alta sicurezza negli Usa, a fu rintuzzato al Congresso che glielo vietò. Biden ha promesso a sua volta di farlo.
Oramai in quella base navale Usa in un angolo dell’isola di Cuba rimangono solo 39 detenuti. Diciannove potrebbero essere rimandati a casa se non fosse che per almeno una decina di loro i Paesi di origine, Yemen e Somalia, non offrono garanzie. Altri dieci sono in attesa di processo o in corso di processo, e fra questi la mente dell’Undici Settembre, Khalid Sheik Mohammed. Un processo che va a rilento non solo per la pandemia, ma anche perché lui stesso fu torturato, e i legali devono destreggiarsi fra informazioni ammissibili in tribunale e quelle invalidate dal peccato originale delle sevizie.