Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  febbraio 06 Domenica calendario

Ryanm cinque anni, morto in fondo al pozzo

la Repubblica IL MAROCCO ha sperato, ha sofferto, ha pregato per 4 giorni. Ma la vita del piccolo Rayan non è stata restituita alla sua famiglia, al suo popolo. Non c’è stato il riscatto, la gioia, non c’è stata la vittoria della speranza che la famiglia, l’intero popolo marocchino avrebbero meritato. Dopo 4 giorni trascorsi bloccato all’interno di un pozzo di 32 metri, alle 9 di ieri sera il corpo del piccolo Rayan è stato tirato fuori e affidato alle cure dei medici: che non hanno potuto far altro che constatare la sua morte. Non c’è bisogno di molti altri dettagli, qui in Italia, per ricordare tutti insieme il “nostro bambino” perduto, Alfredino Rampi, che nel 1981 non riuscì a risalire vivo dal pozzo di Vermicino, alla periferia di Roma. Ecco anche perché le immagini che ieri notte sono arrivate dal Marocco sembrano terribilmente vicine. Assieme alla disperazione. Tutto era iniziato martedì quando Rayan, 5 anni, si era allontanato come sempre per giocare davanti alla casa di famiglia nel villaggio di Tamrout: seguito a distanza dai genitori, ma capace di muoversi da solo come fanno i bambini in campagna. Diceva il padre: «Lo tenevo d’occhio ma è sparito all’improvviso, non avevo capito che fosse caduto lì dentro». Una caduta in verticale nel pozzo ormai secco della famiglia. Tutti sono usciti di casa nelle campagne di Tamrout, sulle montagne del Rif, vicino Chefchauen. Il villaggio si è mobilitato, a sera hanno capito quale fosse il dramma e dove fosse finito Rayan. Nella notte di martedì i primi ad arrivare erano stati i gendarmi, che hanno chiamato i pompieri, arrivati anche da Fes e da Rabat. Giovedì sono scesi in campo anche i geologi e 5 grosse escavatrici. Rayan era precipitato in un pozzo profondo fino a 60 metri. Il pozzo nella parte iniziale è largo 32 centimetri, ma poi si restringe a 25, e quello è il punto in cui il corpo di Rayan si è bloccato. A 32 metri, appunto. I pompieri hanno calato una telecamera, un tubo per provare a inviare acqua e cibo. Erano riusciti a vedere Rayan, sdraiato di lato, Come avvenne a Vermicino, uno dei soccorritori dal fisico esile ha provato a calarsi dall’alto, legato per i piedi, se non altro per avvicinarlo e provare a confortarlo. Ma il pozzo si restringe già dopo una ventina di metri, per cui era impossibile raggiungerlo anche solo per passargli qualcosa. Niente da fare. Per 4 giorni intorno al pozzo maledetto si sono radunati centinaia di cittadini, che partono col recitare preghiere e nenie islamiche invocando l’aiuto di Allah per la vita di Rayan. Il portavoce del governo da Rabat ha detto che anche tutti i ministri pregavano per la sua salvezza mentre il Paese, e il mondo intero, trattenevano il fiato. I tecnici marocchini in poche ore decidono di adottare una tecnica drastica: scavare a lato del pozzo, massicciamente, una fossa molto ampia e profonda. Per scendere di 30 metri e far partire poi un cunicolo trasversale che raggiunga Rayan. Ieri pomeriggio i soccorritori davano speranza: «Siamo a 70 centimetri da lui, scaviamo pianissimo a mano, in orizzontale, per evitare che tutto crolli». L’ingegner Murad Al Jazouli, il capo dei soccorsi, si è quindi presentato davanti ai giornalisti per affermare, lasciando intravedere un lieto fine, che «Rayan è vivo, lo tireremo fuori oggi». In Marocco e in tutto il mondo arabo si sperava, con i social media in fibrillazione. L’hashtag #sauvezrayan per ore è stato in testa alle tendenze Twitter. «I soccorritori stanno letteralmente spostando una montagna per salvare il piccolo #Rayan, spero che i loro sforzi non siano vani», scriveva un utente. «Aspetta il piccolo Rayan, per favore aspetta», twitta un altro. In serata Rayan viene estratto dal pozzo e la folla tutta intorno applaude, emette urla di gioia che accompagnano la corsa dei soccorritori e della barella con il corpicino del bimbo verso l’ambulanza. Poi il volo in elicottero verso l’ospedale. Sembrava salvo, sembrava che ci fosse il lieto fine. Ma pochi minuti dopo, intorno alle 21.30, è il Palazzo reale a dover dare la più terribile delle notizie. Quella che nessuno voleva sentire: «Rayan è morto». Come Alfredino, nemmeno Rayan ce l’ha fatta ad attendere, a riportare la sua vita alla gioia della famiglia. Ed è stato il re Mohammed VI a comunicare al mondo che oggi lui e tutto il suo popolo saranno a lutto

Vincenzo Nigro


Corriere della Sera

«I genitori, hanno chiamato i genitori!». Sono passate da poco le 9 di sera quando, alla luce delle fotoelettriche e dei telefonini, la folla degli uomini intona inni di ringraziamento. Questione di attimi. Dopo quattro giorni e quattro notti di incubo.

Lo portano fuori avvolto in un lenzuolo giallo. Papà Khalid e mamma Soumaya ora aspettano all’ambulanza. Che parte verso il piccolo campo dove un elicottero è pronto a partire. La folla festeggia. Ma l’elicottero non si alzerà in volo. E un comunicato della Casa Reale del Marocco gela tutti: «Rayan è morto per le ferite riportate durante la caduta».

Per tirarlo fuori avevano squarciato la montagna. E poi hanno continuato a rosicchiare la roccia a mani nude, per ore, avanzando in orizzontale grazie a un condotto di sicurezza. Piano piano, per non rischiare di far crollare tutto. Roccia grigia, terra rossa. Alla luce del sole e quando è calata la sera, una grande scavatrice gialla, con il braccio pazientemente piegato e ormai inservibile, è rimasta a fare da sentinella all’imboccatura della caverna artificiale, mentre dentro i soccorritori con il casco rosso avanzavano a piccoli colpi di 20 centimetri all’ora per salvare il bambino Rayan, 5 anni, prigioniero da martedì pomeriggio di un pozzo profondo 32 metri e largo 25 centimetri. Il pozzo che, mentre lui giocava, suo padre stava sistemando.

Per ore ieri il papà contadino è stato visto vagare all’entrata della caverna, o seduto con il cappuccio calato sulla testa, mentre intorno una folla sterminata di persone (quasi tutti uomini) incorniciava la scena da ogni lato. A Ighrane, villaggio di 500 persone sulle montagne del Rif, nel nord del Marocco, tanta gente insieme non si era mai vista. Persone pronte, con il cellulare in mano, a riprendere un momento atteso in tutto il Marocco e non solo. Un momento che era sembrato imminente già dal mattino, quando i capi della Protezione Civile raccontavano che l’avanzata nella notte precedente era stata ritardata da un pericoloso imprevisto: l’ostacolo di una grande roccia di tre metri aveva richiesto quattro ore di scavo e mille precauzioni per la paura di frane. Il sole è tramontato sui monti del Rif, su quel villaggio di coltivatori di cannabis che è sempre stato soltanto un puntino nelle mappe, e il momento tanto atteso ancora non arriva. Per la mamma e il papà di Rayan, per gli spettatori che a decine (tanti bambini) hanno chiamato le radio e le tv per lasciare un messaggio o una preghiera.

100 ore sotto terra

Gli scavatori l’hanno raggiunto avanzando 20 centimetri all’ora per evitare frane

Alla discesa del buio, gli «Allah Akhbar» lanciati verso il cielo sono ripresi tra la folla, quando alla squadra degli scavatori si è affiancata l’equipe dei medici. Le flebo dopo gli scalpelli. Ma del piccolo Rayan ancora nessuna traccia. Nella mente le avvertenze di Abdelhadi Temrani, responsabile dei soccorsi, che prima di mezzogiorno aveva messo in guardia: «Non è possibile determinare le condizioni del bambino. Non sappiamo se abbia preso l’acqua e la mascherina dell’ossigeno che gli abbiamo mandato giù. Ma preghiamo Dio che sia vivo».

Le ultime immagini dalla telecamerina, ha raccontato Temrani, mostravano Rayan appoggiato sul fianco. Giovedì, il giovane che si era calato nel pozzo arrivando a sei metri di distanza dalla sua testa ferita, come avevano fatto a Vermicino i volontari italiani nel tentativo di salvare Alfredino Rampi nel 1981, lo aveva sentito piangere e respirare. Non aveva potuto fare altro, perché a 26 metri il pozzo si restringeva ulteriormente. La Protezione Civile aveva così cambiato strategia. Scavando la montagna con sei scavatrici in modo da arrivare «di lato» alla stessa profondità del bambino. Sulla parete in alto, sotto il treppiede alla bocca del pozzo, i segni dei denti delle benne. Al fondo, «i perforatori» che avanzavano 20 centimetri all’ora. Scesa la notte, nella caverna illuminata dalle fotoelettriche si è continuato a lavorare. Fuori, la folla in attesa: tra la sentinella gialla e l’ambulanza bianca pronta ad aprire il portellone per il tragitto fino all’elicottero e da lì all’ospedale.

Poi sono comparsi i genitori, il papà con il cappuccio e gli occhi bassi, la mamma impietrita. Cominciano i cori. Adesso esce. Ancora un attimo. Scattano i telefonini. L’ambulanza accoglie Rayan avvolto in un lenzuolo giallo.

Michele Farina


La Stampa

l piccolo Rayan non ce l’ha fatta. Ieri sera, alle otto e mezzo, dopo una corsa disperata durata cinque giorni, i soccorritori l’hanno raggiunto nel pozzo dove era caduto martedì. Troppo tardi. Come 41 anni fa a Vermicino, la tragedia di Alfredino Rampi. Stesso tragico epilogo che unisce Marocco e Italia. Il cielo sopra Ighrane era ormai nero come la pece, quando giù sotto terra, nel profondo di una montagna scavata giorno e notte, si era intravista la luce. La galleria orizzontale scavata per metterlo in salvo era arrivata al pozzo. Sembrava il lieto fine. Allahu Akbar, Allahu Akbar. Aash Aash ya Rayan, viva viva Rayan, era il richiamo liberatorio, insieme a preghiere invocate in coro come nenie per lunghe ore, dove fede, misticismo e fatalismo si mescolavano, assieme alla tecnologia, la scienza e tutta la forza disponibile messa a disposizione dal Paese.
Già da venerdì all’alba i soccorritori avevano cominciato a scavare in orizzontale, centimetro dopo centimetro, un tunnel che raggiungesse il bambino, senza far crollare il pozzo. Un lavoro delicatissimo. Quando hanno intravisto il volto e il corpo pieno di fango e terra hanno gridato: «È vivo». Dai genitori, dall’ambulanza che lo aspettava è salito un canto di vittoria. Le donne del piccolo villaggio di Ighrane, uno dei tanti sperduti nelle montagne della regione del Rif nel Nord del Marocco - severa e conservatrice - si lasciavano andare con una zaghrita marocchina, un ululato che produce un suono quasi mistico. Poi il piccolo è stato portato fuori dal pozzo, di corsa, verso l’ambulanza. Ma pochi minuti dopo è arrivata la notizia, terribile, Rayan non respira più. Era finita.
Per cinque lunghissimi giorni il Marocco, e poi il mondo, sono rimasti con il fiato sospeso. Rayan era intrappolato in un pertugio stretto, appena 25 centimetri di diametro, profondo 60 metri. Nella caduta si era fermato a 32, al buio e al freddo, con temperature che rischiavano di portarlo in ipotermia. Ha mostrato una forza incredibile per un bimbo così piccolo, osservato in tutti questi giorni con una telecamera, e rifornito di ossigeno con un tubicino. Il lieto fine sembrava a portata di mano, a pochi centimetri. E invece no, Rayan come Alfredino.
A Ighrane vivono di agricoltura, l’acqua è oro, e scavare la terra per trovarla è la regola. È quello che aveva fatto il papà di Rayan, contadino anche lui. Aveva scavato quel pozzo per irrigare il proprio terreno. Un buco profondo fatto in un mondo dove la sicurezza, in un Paese che in questi anni ha fatto passi da gigante, rimane comunque ai margini. Quel mondo ha fatto irruzione nelle tivù di tutte le nazioni. Le immagini delle case di Ighrane, lasciate aperte per ospitare gli stranieri, le donne che si rimboccavano le maniche e cucinavano all’aria aperta con i pentoloni e i pochi utensili a disposizione, per offrire cibo ai soccorritori e i giornalisti stranieri nel luogo, hanno fatto scoprire l’anima profonda del Marocco, l’ospitalità, anche nella povertà più assoluta.
Il piccolo Rayan è riuscito a tenere incollati alle tivù giorno e notte milioni di spettatori nel mondo arabo, e oltre, compresa la diaspora in Europa. In Italia la notizia è circolata sin da subito in tutti i social. Un tam tam velocissimo. L’immagine e il sorriso di Rayan, con la richiesta di preghiere per salvarlo. Una rete unica nel suo genere che ha coinvolto una platea immensa di solidarietà e spettatori in un Live iniziato dai media locali ma affiancato in seguito dai giganti come Al-Jazeera, Sky News Arabia, che non hanno mai mollato la diretta perché hanno risposto a una richiesta di un pubblico che cercava di seguire il destino di quel bimbo come se fosse il proprio. Sui social milioni di commenti, di connessioni alle varie dirette. Le preghiere del venerdì in tutte le moschee sono state dedicate a Rayan.
Un evento straordinario nel suo insieme, lo sforzo senza precedenti di un Paese intero, il Marocco, che si è stretto attorno al bambino con tutti i mezzi a disposizione, in una operazione gigantesca. L’eco che ha avuto e l’empatia che ha scosso in un’area così vasta come quella del mondo arabo, martoriato nei suoi diversi angoli dalle guerre, dove i telegiornali di solito fanno la conta dei morti, con immagini raccapriccianti del loro corpi, persino di bambini. Questa volta, sembrava una storia diversa, quella di una vita salvata, a qualsiasi costo. Perché non è vero, come molti arabi dicono sconfortati, che la vita di un arabo non vale niente. Con Rayan, si è dimostrato che vale tanto, perché un Paese intero è arrivato in soccorso con tutte le sue forze. È un messaggio forte, se ne sentiva il bisogno nei vari angoli del mondo arabo. Per dieci minuti sembrava che la vita avesse vinto, dal Marocco all’Iraq, all’Italia, al mondo intero, si gioiva, e invece no. Rayan non ce l’ha fatta. Come Alfredino. Piange il Marocco. Piange l’Italia. Piange l’umanità.
Karima Moual