la Repubblica, 6 febbraio 2022
Ryanm cinque anni, morto in fondo al pozzo
la Repubblica IL MAROCCO ha sperato, ha sofferto, ha pregato per 4 giorni. Ma la vita del piccolo Rayan non è stata restituita alla sua famiglia, al suo popolo. Non c’è stato il riscatto, la gioia, non c’è stata la vittoria della speranza che la famiglia, l’intero popolo marocchino avrebbero meritato. Dopo 4 giorni trascorsi bloccato all’interno di un pozzo di 32 metri, alle 9 di ieri sera il corpo del piccolo Rayan è stato tirato fuori e affidato alle cure dei medici: che non hanno potuto far altro che constatare la sua morte. Non c’è bisogno di molti altri dettagli, qui in Italia, per ricordare tutti insieme il “nostro bambino” perduto, Alfredino Rampi, che nel 1981 non riuscì a risalire vivo dal pozzo di Vermicino, alla periferia di Roma. Ecco anche perché le immagini che ieri notte sono arrivate dal Marocco sembrano terribilmente vicine. Assieme alla disperazione. Tutto era iniziato martedì quando Rayan, 5 anni, si era allontanato come sempre per giocare davanti alla casa di famiglia nel villaggio di Tamrout: seguito a distanza dai genitori, ma capace di muoversi da solo come fanno i bambini in campagna. Diceva il padre: «Lo tenevo d’occhio ma è sparito all’improvviso, non avevo capito che fosse caduto lì dentro». Una caduta in verticale nel pozzo ormai secco della famiglia. Tutti sono usciti di casa nelle campagne di Tamrout, sulle montagne del Rif, vicino Chefchauen. Il villaggio si è mobilitato, a sera hanno capito quale fosse il dramma e dove fosse finito Rayan. Nella notte di martedì i primi ad arrivare erano stati i gendarmi, che hanno chiamato i pompieri, arrivati anche da Fes e da Rabat. Giovedì sono scesi in campo anche i geologi e 5 grosse escavatrici. Rayan era precipitato in un pozzo profondo fino a 60 metri. Il pozzo nella parte iniziale è largo 32 centimetri, ma poi si restringe a 25, e quello è il punto in cui il corpo di Rayan si è bloccato. A 32 metri, appunto. I pompieri hanno calato una telecamera, un tubo per provare a inviare acqua e cibo. Erano riusciti a vedere Rayan, sdraiato di lato, Come avvenne a Vermicino, uno dei soccorritori dal fisico esile ha provato a calarsi dall’alto, legato per i piedi, se non altro per avvicinarlo e provare a confortarlo. Ma il pozzo si restringe già dopo una ventina di metri, per cui era impossibile raggiungerlo anche solo per passargli qualcosa. Niente da fare. Per 4 giorni intorno al pozzo maledetto si sono radunati centinaia di cittadini, che partono col recitare preghiere e nenie islamiche invocando l’aiuto di Allah per la vita di Rayan. Il portavoce del governo da Rabat ha detto che anche tutti i ministri pregavano per la sua salvezza mentre il Paese, e il mondo intero, trattenevano il fiato. I tecnici marocchini in poche ore decidono di adottare una tecnica drastica: scavare a lato del pozzo, massicciamente, una fossa molto ampia e profonda. Per scendere di 30 metri e far partire poi un cunicolo trasversale che raggiunga Rayan. Ieri pomeriggio i soccorritori davano speranza: «Siamo a 70 centimetri da lui, scaviamo pianissimo a mano, in orizzontale, per evitare che tutto crolli». L’ingegner Murad Al Jazouli, il capo dei soccorsi, si è quindi presentato davanti ai giornalisti per affermare, lasciando intravedere un lieto fine, che «Rayan è vivo, lo tireremo fuori oggi». In Marocco e in tutto il mondo arabo si sperava, con i social media in fibrillazione. L’hashtag #sauvezrayan per ore è stato in testa alle tendenze Twitter. «I soccorritori stanno letteralmente spostando una montagna per salvare il piccolo #Rayan, spero che i loro sforzi non siano vani», scriveva un utente. «Aspetta il piccolo Rayan, per favore aspetta», twitta un altro. In serata Rayan viene estratto dal pozzo e la folla tutta intorno applaude, emette urla di gioia che accompagnano la corsa dei soccorritori e della barella con il corpicino del bimbo verso l’ambulanza. Poi il volo in elicottero verso l’ospedale. Sembrava salvo, sembrava che ci fosse il lieto fine. Ma pochi minuti dopo, intorno alle 21.30, è il Palazzo reale a dover dare la più terribile delle notizie. Quella che nessuno voleva sentire: «Rayan è morto». Come Alfredino, nemmeno Rayan ce l’ha fatta ad attendere, a riportare la sua vita alla gioia della famiglia. Ed è stato il re Mohammed VI a comunicare al mondo che oggi lui e tutto il suo popolo saranno a lutto
Vincenzo Nigro
Corriere della Sera
«I genitori, hanno chiamato i genitori!». Sono passate da poco le 9 di sera quando, alla luce delle fotoelettriche e dei telefonini, la folla degli uomini intona inni di ringraziamento. Questione di attimi. Dopo quattro giorni e quattro notti di incubo.
Lo portano fuori avvolto in un lenzuolo giallo. Papà Khalid e mamma Soumaya ora aspettano all’ambulanza. Che parte verso il piccolo campo dove un elicottero è pronto a partire. La folla festeggia. Ma l’elicottero non si alzerà in volo. E un comunicato della Casa Reale del Marocco gela tutti: «Rayan è morto per le ferite riportate durante la caduta».
Per tirarlo fuori avevano squarciato la montagna. E poi hanno continuato a rosicchiare la roccia a mani nude, per ore, avanzando in orizzontale grazie a un condotto di sicurezza. Piano piano, per non rischiare di far crollare tutto. Roccia grigia, terra rossa. Alla luce del sole e quando è calata la sera, una grande scavatrice gialla, con il braccio pazientemente piegato e ormai inservibile, è rimasta a fare da sentinella all’imboccatura della caverna artificiale, mentre dentro i soccorritori con il casco rosso avanzavano a piccoli colpi di 20 centimetri all’ora per salvare il bambino Rayan, 5 anni, prigioniero da martedì pomeriggio di un pozzo profondo 32 metri e largo 25 centimetri. Il pozzo che, mentre lui giocava, suo padre stava sistemando.
Per ore ieri il papà contadino è stato visto vagare all’entrata della caverna, o seduto con il cappuccio calato sulla testa, mentre intorno una folla sterminata di persone (quasi tutti uomini) incorniciava la scena da ogni lato. A Ighrane, villaggio di 500 persone sulle montagne del Rif, nel nord del Marocco, tanta gente insieme non si era mai vista. Persone pronte, con il cellulare in mano, a riprendere un momento atteso in tutto il Marocco e non solo. Un momento che era sembrato imminente già dal mattino, quando i capi della Protezione Civile raccontavano che l’avanzata nella notte precedente era stata ritardata da un pericoloso imprevisto: l’ostacolo di una grande roccia di tre metri aveva richiesto quattro ore di scavo e mille precauzioni per la paura di frane. Il sole è tramontato sui monti del Rif, su quel villaggio di coltivatori di cannabis che è sempre stato soltanto un puntino nelle mappe, e il momento tanto atteso ancora non arriva. Per la mamma e il papà di Rayan, per gli spettatori che a decine (tanti bambini) hanno chiamato le radio e le tv per lasciare un messaggio o una preghiera.
100 ore sotto terra
Gli scavatori l’hanno raggiunto avanzando 20 centimetri all’ora per evitare frane
Alla discesa del buio, gli «Allah Akhbar» lanciati verso il cielo sono ripresi tra la folla, quando alla squadra degli scavatori si è affiancata l’equipe dei medici. Le flebo dopo gli scalpelli. Ma del piccolo Rayan ancora nessuna traccia. Nella mente le avvertenze di Abdelhadi Temrani, responsabile dei soccorsi, che prima di mezzogiorno aveva messo in guardia: «Non è possibile determinare le condizioni del bambino. Non sappiamo se abbia preso l’acqua e la mascherina dell’ossigeno che gli abbiamo mandato giù. Ma preghiamo Dio che sia vivo».
Le ultime immagini dalla telecamerina, ha raccontato Temrani, mostravano Rayan appoggiato sul fianco. Giovedì, il giovane che si era calato nel pozzo arrivando a sei metri di distanza dalla sua testa ferita, come avevano fatto a Vermicino i volontari italiani nel tentativo di salvare Alfredino Rampi nel 1981, lo aveva sentito piangere e respirare. Non aveva potuto fare altro, perché a 26 metri il pozzo si restringeva ulteriormente. La Protezione Civile aveva così cambiato strategia. Scavando la montagna con sei scavatrici in modo da arrivare «di lato» alla stessa profondità del bambino. Sulla parete in alto, sotto il treppiede alla bocca del pozzo, i segni dei denti delle benne. Al fondo, «i perforatori» che avanzavano 20 centimetri all’ora. Scesa la notte, nella caverna illuminata dalle fotoelettriche si è continuato a lavorare. Fuori, la folla in attesa: tra la sentinella gialla e l’ambulanza bianca pronta ad aprire il portellone per il tragitto fino all’elicottero e da lì all’ospedale.
Poi sono comparsi i genitori, il papà con il cappuccio e gli occhi bassi, la mamma impietrita. Cominciano i cori. Adesso esce. Ancora un attimo. Scattano i telefonini. L’ambulanza accoglie Rayan avvolto in un lenzuolo giallo.
Michele Farina
La Stampa