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 2022  febbraio 05 Sabato calendario

Intervista a Sergio Castellitto


Al cinema il suo nome è legato a registi come Amelio, Bellocchio, Rosi, Scola, Tornatore, Virzì. Ma è il teatro ad averlo consegnato al grande schermo e alla televisione, dove la sua presenza è stata costante in film e fiction di primo piano degli ultimi trent’anni.
Sergio Castellitto, 68 anni, possiede una naturalezza di gesti ed espressioni, una finezza recitativa che, unite a una manifesta umanità, lo hanno reso uno degli attori più amati dagli italiani. «La Lettura» lo ha incontrato alla vigilia del suo ritorno, dopo vent’anni, in teatro: dall’11 al 13 febbraio sarà in scena al Comunale di Ferrara con Zorro. Un eremita sul marciapiede, di Margaret Mazzantini, scrittrice e moglie di Castellitto, da lui diretto e interpretato. Lo spettacolo farà poi tappa a Biella (14 marzo), Savona (15-17) e Rovereto (29-30).
Cosa l’ha spinta a tornare sul palco?
«Il teatro offre un pensiero, una visione delle cose molto più interessante del cinema, dove tutto è già accaduto, dove l’attore non corre nessun rischio. Il teatro quel rischio ancora te lo consente, è quello che mi ha attratto. E poi mi mancava la presenza fisica del pubblico, il suo silenzio. Un silenzio che fa rumore».
Chi è Zorro?
«Zorro è un homeless, un uomo che vive in strada. Ci racconta la sua storia. Che potrebbe essere anche la nostra, perché prima di perdere tutte le ancore che lo tenevano ormeggiato alla vita “normale”, Zorro era uno di noi, come noi. C’è, nel monologo, anche un tentativo di indagare che cosa davvero significhi essere “normale”. Ogni vita ne possiede in sé un’altra. Un’altra possibilità. Che è, o non è stata, per destino, scelta, errore».
Un antieroe, un nome epico.
«Zorro è un personaggio dell’immaginario, rimanda all’idea di un cavaliere leale, di qualcuno che combatte, romanticamente, dalla “parte giusta”. Il mio Zorro è un uomo che ha perso tutto tranne la dignità. La sua è una parabola: da individuo inserito nella società a “rifiuto”. Accade di continuo: una delle grandi paure del nostro presente è perdere tutto. Vedere in un attimo sbriciolata ogni certezza. Non solo economica, anche di sé. “La dignità – dice – non è una tessera, non è un bancomat che te lo possono ritirare. La dignità non può togliertela nessuno».
Come si sente a tornare in scena?
«Felice. Emozionato. Questo monologo è stato un dono che Margaret scrisse per “guarirmi” da un periodo di inquietudine, perché il teatro può ancora guarirci. Farò poche date, per ovvie ragioni – basta un caso di positività e tutto salta – in provincia, dove il pubblico “aspetta” lo spettacolo, ha meno distrazioni culturali che in città».
Qual è l’ultima cosa che fa prima che il sipario si apra?
«Mi domando chi diavolo me lo ha fatto fare (ride). L’ineluttabilità di ciò che deve ancora accadere è un’emozione formidabile. Una tensione – anzi, panico – che è benzina per un attore. Non conta l’esperienza, i film interpretati o girati: quella paura, quel brivido di perdere tutto, lo provo ancora. Compensato dal piacere dell’applauso finale».
Le sono capitate «serate no»?
«Altroché. Qualche volta è stato divertente, altre meno. Il teatro ogni sera è una scommessa. Oltre all’attore, conta il pubblico. Una sera godi di spettatori attenti, che si divertono, si emozionano, partecipano attraverso l’applauso. La sera dopo magari li incontri distratti, distaccati. L’“umore” del pubblico è un controcampo pazzesco».
Oggi bisogna fare i conti anche con le mascherine...
«È come se fossero tutti girati di spalle, un’immagine magrittiana... Margaret, che è stata attrice, e brava, prima di dedicarsi alla scrittura, sostiene di avere sempre recitato per lo spettatore più “disattento”, per catturarne l’attenzione. Anche io, quando preparo una messa in scena, cerco di non vedere il palco dal posto migliore. Mi metto in fondo alla platea accanto all’uscita, ultima poltrona a sinistra... Lo spettatore oggi è abituato – colpa della tv – a una fruizione on/off. Cominci a guardare, interrompi, ti fai un caffè, poi riprendi... Non c’è più nessuna ineluttabilità, nessuna “sacralità”. Una perdita enorme».
Ama il teatro, ma da vent’anni è più sul set che sul palco. Perché?
«Non è stata una scelta, ma il caso. Ho fatto tanto teatro all’inizio. Poi il cinema mi ha chiamato, come una sirena... Sono stato molto fortunato, ho lavorato con i grandi: Scola, Monicelli, Ferreri, Mastroianni... Un giovane attore emergente sul set con quella eccezionale, unica, irripetibile generazione. Poi mi hanno chiamato i miei coetanei: Tornatore, Archibugi, Verdone... Dall’incontro umano e artistico con Margaret, dalla sua letteratura, è nata la nostra collaborazione. I miei film da regista sono quasi tutti tratti dai suoi libri, l’idea di dirigere è nata dalla disponibilità di uno straordinario serbatoio narrativo. Che mi ha permesso di raccontare figure femminili uniche, in un Paese dopo spesso le donne erano, e sono, per lo più ritratte da uomini».
Il personaggio a cui è più legato?
«Sono fiero in particolare dei personaggi storici interpretati per la televisione: Fausto Coppi, Enzo Ferrari, Padre Pio, il generale Dalla Chiesa su cui sto girando una fiction... Come dei film tratti dal teatro di Eduardo insieme con Edoardo De Angelis. Dal punto di vista dell’esercizio artigianale del mio lavoro sono state prove che mi hanno insegnato molto. Scegliere di incarnare un personaggio anziché un altro è un modo di dire la propria opinione sulle cose. Ma decisivo è stato soprattutto il percorso fatto per Non ti muovere. C’è poi un piccolo, grande film che amo molto: è Alza la testa, di Alessandro Angelini. Un racconto alla Clint Eastwood: meritava più fortuna».
Ha sempre voluto fare l’attore?
«Macché, prima di cominciare a recitare lavoravo per un’azienda che distribuiva giornali. Il pallino ce l’avevo, ma non coltivavo particolari velleità artistiche, questo mi ha preservato dalla megalomania che gli attori hanno per default. Conobbi per caso alcuni ragazzi che studiavano alla Silvio d’Amico, che frequentai per un anno come uditore. Quando decisi di iscrivermi, ruppi con la mia vita “ufficiale”, con grande disapprovazione della mia famiglia. Non sono figlio d’arte, l’amore per questo mestiere l’ho scoperto facendolo. Ho sempre pensato che entrare nel mondo dello spettacolo significasse applicarsi per conquistare fiducia e stima attraverso la disciplina. Oggi mi ritrovo a festeggiare la carriera di mio figlio Pietro, lui sì figlio d’arte».
Sapeva che avrebbe seguito le sue orme?
«Ha avuto piccole parti nei miei film, l’interesse per il mondo dello spettacolo forse è nato da lì. Ma quando ha scelto di fare le cose sul serio, scrivendo per esempio il suo primo film, lo abbiamo saputo solo a cose fatte. Un percorso di indipendenza che ammiro molto».
Come vive i giudizi critici negativi?
«Penso che la critica teatrale e cinematografica attraversi un momento di crisi. Ricordo quando su “Repubblica” le recensioni di Tommaso Chiaretti aprivano le pagine degli spettacoli, o quando in teatro, la sera della seconda replica, si faceva l’alba per andare in edicola e leggere Roberto De Monticelli sul “Corriere della Sera” o Renzo Tian sul “Messaggero”. Oggi ci si è ridotti a “pallette e stellette” deprimenti per il lettore e per chi scrive. La responsabilità è anche di internet e dei social, dove un esercito di “cecchini culturali” è in grado di dire il peggio e il meglio di tutto senza alcun titolo per farlo».
Se le dicono: devi cambiare lavoro, che cosa va a fare?
«Mi ritirerei. Mi piace molto il mio lavoro, ma non mi dispiacerebbe smettere – in qualche modo mi sono già ritirato, ho abbassato il fuoco della naturale nevrosi che il mestiere porta con sé. Oggi torno a recitare in modo meno “compulsivo”. Il teatro ha qualcosa di magico, è un gesto fisico, “operaio”, dove il sudore è fatica. Al cinema è più raro stancarsi».
Il successo le ha cambiato la vita?
«Sì. In meglio. Diffido di chi dice che il successo non conta. Conta eccome. Ti consente di poter scegliere le persone, i progetti ai quali vuoi partecipare. Se sono cambiato? No, a parte le nevrosi, che più o meno abbiamo tutti, la mia natura è rimasta la stessa. Sono fiero di quello che ho costruito. La carriera di un artista è la somma di intuizioni fortunate e di errori, non ho rimpianti. In ogni caso, per me, il vero successo è quando, per strada, qualcuno che non conosco, e succede ancora oggi, mi dice: grazie».