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 2022  febbraio 05 Sabato calendario

Intervista a Marco Tullio Giordana. Dice che Pasolini sarebbe stato ucciso anche oggi

«La sua morte ha significato la perdita di un’intelligenza formidabile, di un intellettuale capace di percepire i grandi mutamenti in corso alla fine del millennio e descriverli senza mai nascondersi o essere accomodante. Oggi che tutte quelle profezie si sono avverate – il consumismo, l’omologazione, la corruzione della classe dirigente, l’evaporazione della cultura e lo smarrimento della sua funzione formativa – Pasolini sembra solo un profeta di sventura. Ma non voleva esserlo: il suo era un grido di battaglia che avremmo potuto e dovuto raccogliere anziché trattare lui come un visionario jettatore. Dopo la sua morte se ne resero conto tutti, perfino i detrattori». Più che una passione. Un’ossessione quella di Marco Tullio Giordana per PPP, dichiarata fin dal suo esordio – Maledetti vi amerò, del 1980 – e perseguita 15 anni dopo con Pasolini, un delitto italiano. «Nel mio primo film sentivo un forte legame simbolico con l’altro orrendo delitto “politico” degli anni Settanta, quello di Aldo Moro. La loro fine, anche se maturata e eseguita in contesti completamente diversi, ha rappresentato per me l’abolizione della politica e della cultura, per come erano sempre state intese. Le brutali esecuzioni di Pasolini e Moro segnano l’inizio del nostro declino. Quindici anni dopo Maledetti vi amerò ho voluto affrontare proprio il delitto Pasolini non per farne un film di detection ma per rendere evidente quanto la sua sparizione ci avesse immiseriti».
All’epoca parlò con Bernardo Bertolucci, che pure sognava di girare qualcosa su Pasolini: cosa le disse?
«Bertolucci era stato suo assistente e prima ancora aveva desiderato essere poeta come suo padre Attilio e come l’ossuto selvatico Pasolini che fin da ragazzo aveva visto girare per casa. Un legame fortissimo, profondo, mai venuto meno. Era incantevole sentirlo raccontare di Accattone, dov’era stato suo aiuto-regista: una sorta di scoperta del cinema per entrambi, la meraviglia di apprenderne il linguaggio fuori da qualsiasi accademia. Era l’estate del 1960 e l’Italia era infiammata dalle manifestazioni contro il governo Tambroni. L’impressione che ricevevo dalle parole di Bertolucci era di un periodo convulso ed entusiasta, dove tutto poteva succedere, tutto poteva cambiare».
Pasolini è stato regista in un arco di tempo limitato, circa 15 anni, eppure la sua influenza è profonda come mostrerà la retrospettiva di Los Angeles.
«In questo breve periodo è stato almeno quattro-cinque registi diversi. C’è un primo Pasolini che affronta lo stesso mondo e la stessa antropologia dei suoi romanzi: Accattone, Mamma Roma, La ricotta, in parte anche Uccellacci e uccellini. Sembrano provenire dallo stesso tipo di osservazione, anzi compassione, della borgata romana e del sottoproletariato, la cui vita aveva condiviso quando era sbarcato a Roma senza un soldo. Una compassione con solide radici nel neorealismo di cui rappresentò l’evoluzione forse più radicale. C’è poi un Pasolini attratto dal sacro, evidente nel Vangelo secondo Matteo, nei Sopralluoghi in Palestina e perfino negli Appunti per un’Orestiade africana. C’è un Pasolini feroce critico anti-borghese in film come Teorema e Porcile e un altro Pasolini ancora, affascinato dalla vitalità primigenia delle culture mediorientali antiche, come Medea e, ancora prima, Edipo re o medievali come Decameron, Racconti di Canterbury o Il fiore delle Mille e una notte, la cosiddetta Trilogia della vita che poi, per rabbia verso la degenerazione consumistica degli italiani, rinnegò amaramente».
C’è poi «Salò».
«Così conturbante e afflittivo da non saperlo ben maneggiare. Cos’è? Una denuncia disperata? Un grido di dolore? Non sono mai riuscito a vederlo senza rimanerne turbato. Forse inganna la sua ambientazione negli ultimi mesi della repubblica di Salò. Forse lo si capisce meglio se lo si guarda come un film di fantascienza distopica, il vaticinio di una futura tirannia».
Qual è il suo lascito in campo cinematografico?
«Molto fecondo, soprattutto in quest’ultimo decennio dove borgate e marginalità sono ritornate prepotentemente in scena. Anche se si tratta di una marginalità postmoderna, profondamente mischiata ai miti della società dello spettacolo al punto da risultarne corrotta. Questa non è certo responsabilità dei cineasti ma dei cambiamenti così estremi intervenuti in tutte le società occidentali. Forse l’influenza maggiore la vediamo nel cinema di quello che una volta si chiamava Terzo mondo: America Latina, Asia, Africa... il mondo dei proscritti che prima o poi si ribellerà».
Pasolini ha raccontato un’Italia che non c’è più, anche antropologicamente. Quei visi, quei corpi, quella lingua sono stati cancellati dalla televisione.
«Prima in letteratura e poi nel cinema Pasolini ha rivelato l’esistenza di una parte di Paese escluso dal boom economico, un mondo derelitto di cui avremmo saputo poco o niente se non gli avesse dato voce lui. Non solo nel geniale reportage Comizi d’amore ma perfino nei volti che sceglieva per i suoi film contravvenendo ai paradigmi della bellezza convenzionale, all’opposto della pubblicità e della tv».
Si può dire, a distanza di quasi 50 anni, che la sua fu una morte politica?
«Non la considero come l’esecuzione di un delitto su commissione, non ne ho mai trovato le prove e non ho mai sottoscritto questa tesi. Fu un delitto di balordi sottoproletari (che comunque beneficiarono di protezioni e coperture) maturato nel clima di impunità di cui poteva godere chiunque avesse aggredito Pasolini, tanto odiosamente lo dipingeva la stampa conservatrice e fascista, tanta la riprovazione che suscitava nei benpensanti, tanto il fastidio perfino in chi avrebbe dovuto difenderlo. In questo senso il delitto è forse più culturale che politico. Viene da chiedersi se quel clima, al di là del santino di Pasolini oggi ostentato come un Corpo Santo, sia cambiato o rimasto uguale. Forse le cose sono addirittura peggiorate: la violenza del populismo sovranista e l’odio per la diversità (mal contrastati dalla correttezza politica e dal conformismo di sinistra) sono ancora più feroci di allora. Pasolini, venerato senza averlo letto, lo scannerebbero anche oggi».
Ormai icona pop, appunto. Come rendergli omaggio al di là del santino?
«L’unico modo per non “istituzionalizzarlo” e renderlo inoffensivo è andare alla fonte. Leggere i suoi scritti: poesie, romanzi, saggi, articoli; vedere i suoi film, perfino le trasmissioni cui ha partecipato. Nessuna sua testimonianza, e sono tante, ha perso vigore».