La Lettura, 5 febbraio 2022
Intervista ad Anna Lembke. Parla della dopamina
Umani, abbiamo un problema: siamo troppo bravi a evitare il dolore. Abbiamo risposto così bene alla sfida del perseguimento del piacere da aver trasformato un mondo caratterizzato dalla scarsità in un ambiente in cui siamo sopraffatti dall’abbondanza. Il piacere è dovunque e il nostro cervello è facile preda della dipendenza. Lo spiega Anna Lembke, docente di psichiatria della Stanford University, in L’era della dopamina, volume nel quale lancia l’allarme: siamo cactus nella foresta pluviale.
Professoressa, che cosa significa? Qual è l’effetto della super-accessibilità delle fonti di piacere sulle persone?
«Il nostro cervello si è evoluto nel corso di milioni di anni nel tentativo di avvicinarci al piacere ed allontanarci dal dolore. Questo circuito primitivo, in gran parte invariato, è adatto a un mondo di scarsità non di sovrabbondanza, come quello in cui viviamo e che abbiamo trasformato al punto di rendere le sostanze e i comportamenti in grado di procurarci benessere disponibili al tocco di un dito. Il risultato è che siamo circondati dal piacere: il nostro cervello si sta arrovellando per adattarsi al nuovo ecosistema, spesso senza successo. Il risultato è visibile nel crescente tasso di dipendenze e nell’aumento della depressione e dell’ansia, legate al tentativo del cervello di controbilanciare la grande quantità di piacere. Siamo simili a cactus, nati per vivere in un clima arido cerchiamo di sopravvivere in un ambiente inzuppato d’acqua».
Lei considera mentori contemporanei le persone uscite da una dipendenza grave. Eppure sono spesso considerate reiette, pecore nere da non invitare al pranzo della domenica. Che cos’hanno da insegnarci e perché?
«Siamo tutti alle prese con piccole dipendenze, dal controllo compulsivo dello smartphone al consumo eccessivo di zucchero. Le persone in recupero da dipendenze severe per sopravvivere hanno dovuto trovare il modo di navigare in un ecosistema colmo di dopamina. La loro saggezza è maturata con l’esperienza che può servire da guida per tutti noi, hanno imparato trucchetti per la vita quotidiana per riuscire a evitare sostanze e comportamenti in grado di creare assuefazione».
Il primo passo per affrontare una dipendenza è vederla: è difficile però riconoscere nel consumo compulsivo di social media o smartphone un problema. Spesso la persona che controlla decine di volte l’email sembra interessante: forse aspetta una risposta importante o fa un lavoro che conta. Come possiamo capire se invece si tratta di una dipendenza?
«L’uso eccessivo delle tecnologie digitali è spesso equiparato al fatto di essere impegnati o richiesti. Anche quando è davvero così, la maggior parte di noi passa comunque più tempo del necessario sui dispositivi. Tra i segnali in grado di indicarci che stiamo andando alla deriva c’è l’abitudine a usare lo smartphone non solo per periodi più lunghi del previsto ma anche in circostanze diverse da quelle attese, soprattutto quando mettiamo a rischio la salute nostra o altrui, come quando guidiamo. Un altro indicatore è la perdita di attenzione rispetto ad attività che prima ci davano gioia. Infine, il meccanismo di tolleranza e astinenza: facciamo attenzione se ci accorgiamo che abbiamo bisogno di una maggiore quantità della nostra “droga” preferita o di forme più potenti per ottenere lo stesso effetto e se interrompendo il consumo sperimentiamo i sintomi universali di astinenza. Ansia, irritabilità, insonnia, depressione e desiderio irrefrenabile».
Il consumo compulsivo occupa il tempo libero: videogiochi, serate con il telefonino in mano sul divano. Lei racconta anche dipendenze da lettura di libri rosa e consiglia di fare più spazio al vuoto. Perché il niente dovrebbe farci bene? Non è una rinuncia?
«Propongo di imparare a sperimentare la noia con consapevolezza: ci permette di considerare novità inesplorate, di recuperare interessi che abbiamo abbandonato, di essere pienamente nel momento presente, anche se è poco confortevole. Staccare la spina ci consente di avere pensieri originali. Se stiamo sempre e solo reagendo agli stimoli esterni, non diamo al nostro cervello l’opportunità di andare a zonzo, attività cruciale per la nostra creatività».
Il quadro è chiaro: possiamo riconoscere una dipendenza dalla faccia amichevole. Facciamo il salto verso una vita libera. Quali sono le pratiche che le persone dipendenti ci insegnano?
«Autoimporsi dei limiti è una strategia rilevante sia che l’obiettivo sia l’astinenza o la moderazione. Si tratta di porre barriere fisiche o cognitive che possono creare tra noi e la nostra “droga” uno spazio di scelta. Invece di fare affidamento solo sulla forza di volontà, possiamo modificare l’ambiente per ridurre l’accessibilità senza esaurire le forze mentali. Si tratta, ad esempio, di non portare il telefonino in certe stanze o di limitarne l’uso in precisi momenti della giornata, giorni della settimana o in determinate situazioni».
Le storie di dipendenza sono importanti come esempi ma conta anche come sono narrate. Suggerisce di fare attenzione sui social media al «drunkalogue», il racconto di aneddoti di consumo compulsivo condivisi per auto-gratificazione e per produrre una nuova scarica di dopamina. Come li riconosciamo e perché fanno male?
«Essere onesti è essenziale per mettere fine al consumo compulsivo. Raccontare storie autobiografiche il più possibile aderenti alla verità ci aiuta a vedere gli errori e a immaginare il futuro. I social media sono pieni di storie progettate per colpire e sbalordirci. Quando la reazione dei sensi è l’obiettivo, le persone minano il valore dell’onestà. Se siamo davvero onesti, fa male. Ma è proprio di un’onestà dolorosa che abbiamo bisogno per affrontare i problemi e andare avanti».
La gioia, infine, dove è? Una vita senza dopamina è impossibile e spaventosa. Possiamo vivere sane scariche di dopamina?
«Il punto non è vivere senza il piacere ma sapere quali siano le migliori fonti di dopamina. Dal mio punto di vista, si tratta di quelle che seguono il dolore. Quando facciamo qualcosa di difficile, o persino doloroso, purché il dolore non sia intenso o improvviso, il nostro corpo inizia a aumentare la dopamina come effetto di bilanciamento. Questa fonte indiretta di dopamina è più duratura. Gli esempi includono l’esercizio fisico, la doccia fredda o anche il semplice staccare la spina affrontando noia e ansia. Quando facciamo qualcosa al servizio di un significato e di un proposito più grandi, diventiamo capaci di tollerare anche una quantità maggiore di malessere. Infine, va bene indulgere di tanto in tanto in piaceri un po’ tossici. Il segreto è limitare il consumo in termini di quantità e frequenza, e lasciare abbastanza tempo in mezzo per permettere al cervello di riorganizzare percorsi di ricompensa sani».
Insomma, i videogiochi vanno bene. Purché si segua la regola di Lembke del digiuno digitale intermittente: orari e giorni di astinenza. Il figlio, annoiato, ringrazierà.